Everyday Robots mette la parola fine all’eterna disputa fra Blur e Oasis. E questa parola non giunge ad eleggere un vincitore il cui podio, in fondo, è rimesso solo ed esclusivamente alle personali inclinazioni di ognuno. Con Everyday Robots si capisce che il confronto/scontro fra Damon Albarn e Noel e Liam Gallagher non ha più senso di esistere. Originati dal ceppo comune del britpop, negli anni le loro strade si sono divaricate sempre più, in certi momenti è sembrato che l’uno avesse la meglio sugli altri, forse in virtù di lungimiranti intuizioni e composizioni scritte in stato di grazia, altre volte hanno viaggiato alla pari, tuttavia entrambi “gareggiavano”, mi si passi il termine, negli stessi territori. Ma con Everyday Robots è evidente, qualora non lo fosse stato prima, che i percorsi di Albarn e Gallagher non sono destinati ad incontrarsi (mai) più. Il primo impegnato a dar seguito ad ogni guizzo musicale, dapprima attraversando il potenziale della dub e dell’elettronica coi Gorillaz, poi nei percorsi soft rock con The Good, the Bad & the Queen e infine con una sequela di gemme soliste. I secondi sempre nel mezzo agli scatti rubati dei tabloid britannici o attaccabrighe dai tratti “drama queens” impegnati a sfornare un singolone da rotazione radiofonica o un clip per sbancare i media. Niente di male, s’intende, ma oggettivamente due percorsi che non si possono più confrontare.
A partire dal 2002, Damon Albarn ha collezionato album decisamente ricercati, partendo dall’esperienza di Mali Music fino alla più recente ispirazione letteraria di Dr Dee. Negli ultimi due anni di incubazione, Damon Albarn non ha abbandonato del tutto i trascorsi da solista, tanto che Everyday Robots sintetizza e porta ad unità i precedenti lavori, recuperando inoltre alcuni temi portanti degli anni dei Blur. Primo fra tutti, la britishness di Albarn, il pervasivo e a volte anacronistico amore di Damon nei confronti della sua nazione. Un sentimento che non ha a che fare col nazionalismo, quanto con un orgoglio intriso di cultura letteraria che lo rende un perfetto personaggio alla Dickens: travagliato, riflessivo, squisitamente borghese e fatalista. Secondo aspetto, la tendenza a costruire impalcature sonore minimali, suoni soffusi e melodie impalpabili fra acustica e elettronica. Ma il vero scarto sta nei temi dei 12 brani del disco. Everyday Robots apre l’archivio personale di Damon che non ricorre più alle ispirazioni storiche offerte da matematici elisabettiani, ma parla in prima persona, regalandoci una sorta di confessione senza veli e senza pose. La rassegnata dichiarazione d’amore (Lonely Press Play), la frequentazione con le droghe (You and Me) molto più agevole rispetto a quella col prossimo (Hostiles), fino al flash back stagionale di Hollow Ponds. Un lento fluttuare nella nebbia, dove compaiano a rischiarare l’orizzonte ora la voce di Natasha Khan (The Selfish Giant) ora l’autorevole presenza di Brian Eno (Heavy Seas Of Love). Il tutto è segnato da una moderata e sobria felicità, ma perfino la ballata più solare del disco, Mr. Tembo, non raggiunge mai uno stato innodico e nonostante la cornice corale dal beat africano, prevale l’uggiosità del timbro di Damon. Everyday Robots fotografa il Damon di oggi e restituisce l’immagine fedele dell’artista che è divenuto.