domenica, Dicembre 22, 2024

Father Murphy – CROCE: la recensione

La Croce è l’albero su cui si regge il mondo; nel nuovo testamento, per riferirsi ad essa, viene utilizzata spesso la parola greca ξύλον, suggerendo così una relazione con l’axis mundi delle religioni pre-cristiane, le stesse di cui parla René Guénon nel suo “le symbolisme de la croix“, pubblicato durante la collaborazione con la rivista “La Gnose” alla vigilia della conversione all’Islam, e che configurano una percezione del simbolo come fondamento costitutivo e ontologico della realtà, secondo le indicazioni della cosmologia arcaica che individua un centro circondato da quattro punti cardinali, dove il centro altro non è che la ri-nascita o ri-creazione dell’uomo allo stato primigenio. Il riferimento a Guénon ci serve per distinguere la diversa relazione che l’esoterista francese aveva con i simboli rispetto ad un approccio iconologico oppure morfologico; la prospettiva di Guénon non è scientifica né storica esattamente come per Julius Evola, non lo è prima di tutto perché la concezione positivista del cosmo non corrisponde alla sua visione tanto da definirla come un segno di decadenza, ma sopratutto perché la prospettiva di osservazione è quella di un sapere iniziatico che interrogandosi sulla coesistenza di più piani di realtà definisce le basi di un pensiero “tradizionalista”, ovvero lontano dalla mistificazione sulla quale si basa la lettura della realtà compiuta attraverso la scienza moderna e vicino ad una sistematizzazione del pensiero tradizionale legato alla dimensione sacra.

L’axis mundi ha la struttura essenziale di una Croce, anche quando è simboleggiato da un albero che collega le due dimensioni, terrena e ultrasensibile, dove nei rituali delle culture animistiche, l’asse “piantato” definiva il centro (e quindi il senso) del mondo stesso, garantendo coesione sociale. La Croce quindi, prima ancora del significato ascensionale Cristiano, indica e riassume una realtà multidimensionale mettendo in relazione il soggetto con il mondo terreno, con il proprio mondo interiore e con quello ultraterreno.

Le note stampa che accompagnano l’ultimo album dei Father Murphy si fermano al doppio significato sacrificio/resurrezione della tradizione Cristiana senza ovviamente alludere ad una dimensione escatologica, ma sfruttando probabilmente una simbologia radicata nella percezione collettiva del Cristianesimo che molto spesso non fa i conti con una stratificazione simbolica e storica molto complessa di cui CROCE si fa carico con altri mezzi, quelli del nuovo linguaggio sonoro di Zanatta/Lee.

Se i relitti dei “generi” occidentali fino a questo momento si sono rivelati presenti-assenti nella loro caratteristica residuale anche in base ad una “tradizione” decostruzionista, quella “post” di Pussy Galore o forse dei più ritualistici Pain Teens, band a mio avviso fondamentale come chiave di lettura per alcune produzioni dei nostri, con una particolare attenzione ad un lavoro centrale nella loro discografia come No room for the weak; in CROCE se ne perdono quasi completamente le tracce per privilegiare la dimensione sciamanica, trans-generica e di passaggio che se messa in relazione con il simbolismo della croce, fa pensare maggiormente alla lettura del mondo pre-cristiano approntata da certi sincretisti, invece che alla dinamica binaria del sacrificio/resurrezione che viene associata alla visione Cristiana; tant’è, sia l’artwork del CD che il video teaser agevolato in calce a questa recensione, evidenziano la CROCE come un bastone con il solo asse verticale: ξύλον.

Un ulteriore segno viene offerto dalla commistione tra oriente e occidente nelle scelte armoniche di Zanatta/Lee, perché se si escludono le due tracce che aprono l’album, la prima (Blood is thicker than water) vicina in modo apocrifo e rallentato al linguaggio dei Deerhoof, dove la produzione di John Dieterich si fa sentire; e la seconda (A Purpose) l’episodio più industrial della selezione; da “So this is permanent” si imbocca una strada senza ritorno che si riferisce a molteplici tradizioni della musica rituale, a partire da quella oracolare Shinto nell’esecuzione “kami no nori koto” che incontra alcune forme del blues (In solitude) dove le due radici culturali sembrano interagire nella dimensione della solitudine che si apre a molteplici interpretazioni, devozionale e allo stesso tempo spalancata sull’abisso.

Da qui in poi CROCE, cambia del tutto e forse anche i Father Murphy, per sempre; più vicini ormai alle sperimentazioni meditative di Sun City Girls, quelli completamente smarcati da ogni forma e riconciliati con la sostanza pre-formale del suono (così come ?Alos con il fonema). Il clangore metallico non scompare, perché il coinvolgimento dei Father Murphy con i residui della società occidentale è una ferita sempre aperta che gli consente di tradurre il rumore bianco della città e quello del metallo nel loro rovescio arcaico, quindi se i suoni non sono quelli mimetici di una comunione, anche terribile, con la natura, allo stesso modo non siamo così sicuri che quella sullo sfondo sia la minaccia di un paesaggio post-industriale, quanto la sua trasformazione astratta in un territorio mentale.

L’incedere è maggiormente sciamanico, oppure assume i caratteri processionali del cantus firmus (We walk by faith) sporcato dall’utilizzo distorto e grottesco della lingua inglese e dal suono di una tromba che sembra il simulacro di una solitaria onoranza funebre, quasi a ricordarci un continuo oscillare tra spirito e oggetti, materia inorganica e dissoluzione del corpo.

In tutti casi si tratta di un viaggio metafisico dove la “Matrice” non è la corporeità ribollente e generatrice di Stefania Pedretti, ma una condizione estatica, non importa se rivolta verso il basso o verso l’alto, perché quello che rimane è il segno di un’esperienza sonora assolutamente fuori dall’ordinario.

Sarebbe un peccato confinare la musica dei Father Murphy nel consueto lessico critico (psichedelia, drone music, industrial, impro etc.) proprio ora che sono completamente liberi da qualsiasi contenitore specifico.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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