Se c’è una cosa che accomuna la calda stagione estiva a quella autunnale è sicuramente la combinazione di colori: un’esplosione di nuances dalle tinte calde, che rimbalzano allegramente fra tonalità rosse, gialle e arancioni. E’ qualcosa di ben radicato nell’immaginario di ognuno: l’allegro crepitìo del fuoco scarlatto nel caminetto, a riscaldare una gelida giornata novembrina, può essere facilmente accostato al metaforico fiammeggiare del sole che picchia in un mezzogiorno di agosto, e che tinge di un giallo accecante, senape, le strade deserte della città in vacanza; e naturalmente il tripudio cromatico delle foglie dipinte che in autunno invadono tutto l’ambiente circostante, alberi, aria e suolo.
Sono queste le suggestioni che vengono in mente ascoltando Sahara, il primo album dei Forgotten Birds, che già a partire dal titolo sembra giocare sull’idealizzazione ossimorica e sui contrasti: l’immagine di un gigantesco deserto, di un ocra straniante e totale, instrada a un senso di turbato spaesamento. Invece, ascoltando le tracce del disco, lo smarrimento iniziale lascia spazio alla sensazione di “sentirsi a casa”: un clima familiare dal retrogusto di déjà vu, atmosfere retrò e suoni lo-fi, ricordi luminosi venati da un’impercettibile malinconia, per un dream-folk genuino e limpido.
Il duo di Amburgo proietta gli ascoltatori in una dimensione di reminescenza trasognata dai contorni indefiniti e traballanti, come un’allucinazione nel deserto, a cavallo fra sensazioni e stagioni discordanti e confuse: l’adolescenziale Brooklyn Bridge, con i suoi accordi puliti ed il refrain “I wanna kiss you on the Brooklyn Bridge”, rievoca amori estivi ed afosi, cieli tersi, metropoli accaldate; Silver River è cristallina e pungente come ghiaccio, con accordi pizzicati vivacemente e suoni squillanti e argentini; la ripetitività incantata di She Goes accompagna verso un senso di attonita pigrizia, come una carezzevole ninna nanna, ed affoga in un letto di archi impalpabili e distanti. Le due voci, quella delicata e lievemente patinata di lei (Judy Willms) e quella incisiva e posata di lui (Jan Gazzara), dialogano e si avvolgono in una spirale di vibrazioni dense e sinuose, muovendosi su ritmi spigliati e melodie morbide e leggere. Le influenze spaziano da suggestioni palesemente folk, come quella dei Wild Child, che omaggiano la musica popolare con chitarre spoglie e pulite e ritmi simmetrici, a inclinazioni verso fresche sonorità indie, tipo The Head and the Heart, passando per Atlas e Night Beds. In ogni caso, il comune denominatore è sempre un’autentica e briosa dolcezza, appannata da un sottile romanticismo nostalgico e agrodolce.
Un lavoro che, divertendosi con le antitesi e balzando da un estremo all’altro – estate/inverno, colori caldi/freddi, aspettative/rimpianto – tende ad adagiarsi sull’aurea mediocritas, sull’armonia mediana e ponderata del “giusto mezzo”: pigri pomeriggi di inizio autunno, tenui tonalità pastello, saudade di memorie e palpitazioni. Il tutto attanagliato da un candore sventato, quasi puerile, che stringe il cuore. Disarmante.
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