Al principio del nuovo millennio, il sottobosco hip-hop statunitense era in fermento. La grandiosa scena dei ’90, monopolizzata dal gangsta e dalle scaramucce east cost vs. west coast, sembrava tramontata assieme all’eco degli spari che avevano falciato le vite di Tupac Shakur e Notorius B.I.G. Il bisogno di nuove forme di espressione si era fatto impellente, tanto che i più acuti rappresentanti dell’underground avevano scelto di indirizzare la propria creatività in senso fortemente sperimentale.
Due scuole di pensiero erano ben presto emerse dal caos: da un lato i Clouddead e la crew Anticon, esponenti di una sensibilità raffinata, tendente all’ibridazione con l’elettronica più ambient e a occasionali affondi “pop”; dall’altro i newyorkesi Dälek, adepti del campionamento a 360 gradi e portavoce d’istanze sociali ben più aggressive. Manifesto della poetica di questi ultimi, ancor più dell’esordio Negro Necro Nekros, sarebbe stato il capolavoro di lerciume urbano From Filthy Tongue of Gods and Griots. L’album, che nel 2002 segnò l’entrata in organico dello scratcher Dj Still – ad affiancare i membri fondatori Dälek Mc e Oktopus – nonché il sodalizio con la Ipecac di Mike Patton, viene oggi ristampato in vinile e in cd dalla ici d’ailleurs con l’aggiunta della bonus track 41 shots. Fin dal titolo, l’opera apre squarci su un immaginario a dir poco apocalittico.
La spiritualità ipocrita che contraddistingue la società americana non è che un paravento, atto a deviare l’attenzione dalla sistematica persecuzione cui i cittadini di pelle nera sono quotidianamente sottoposti (“I wear skin like Jesus / Sick of bullshit preachers concerned with aborted fetus / But don’t give a fuck who feeds us / Speech so tedious / If Abraham freed us, why there still Abner Louima’s?” … “They’re hawking me from high atop the food chain”). Il sogno americano è in realtà un incubo, Dio è bianco, e gli ultimi rimarranno ultimi in eterno, costretti a trascinare le proprie esistenze con dolore (“Black smoke rises to a heaven I do not know / Slowly gaze to take in our sorrow / Why question a life only borrowed?”), di là da ogni possibile consolazione ultraterrena (“To my trampled brethren, Heaven won’t accept you!”).
Di fronte a tanta desolazione, i Dälek si pongono come gli ultimi Griot, i cantori che in Africa Occidentale custodiscono la tradizione orale. Per giungere a destinazione nella maniera più efficace, tuttavia, il loro messaggio funesto necessita di un supporto musicale altrettanto intenso. Di conseguenza, il produttore Oktopus bypassa senza indugi James Brown e il funk, rivolgendosi a forme di musica “altre” e spalancando alle tecniche di campionamento universi inesplorati. L’opener Spiritual Healing, così come Hold Tight, … From Mole Hills, Voices of Ether o l’inno Classical Homicide, recuperano la poetica noise che già fu dei Public Enemy.
Solo che qui i beat granitici vengono affiancati da rumori ancor più estremi (sibili, distorsioni, metallo stridente), esplicitamente debitori della tradizione industriale, secondo un modus operandi che – a sua volta – verrà imitato dieci anni più tardi dai sanguinari Death Grips. Ma i Dälek e Oktopus sono in grado di andare oltre i semplici assalti frontali. Speak Volumes e – soprattutto – Forever Close My Eyes si aprono a dilatazioni psichedeliche, a metà strada fra musica cosmica e shoegaze estremo, mentre Black Smoke Rises schiera un recitativo che si protrae per quasi otto minuti, supportato da una base sperimentale che paga pegno ai This Heat più liberi. Se quello che aspirate a trovare è l’intensità, potete smettere di cercare. Seminale.
“Amplify brainwaves to condense my thought / Bends the dark / Why question my art?”