Gianni Morandi è un pezzo di storia italiana. Chi da bambina canticchiava le strofe seguendo in giro la propria mamma mentre in cucina girava un suo disco, chi l’ha visto in concerto quando ancora non sapeva neanche cosa fosse la musica perché era assolutamente vietato perderlo. Chi litigava con le amiche perché non era possibile preferire Bobby Solo. Morandi ha rassicurato intere generazioni, con la sua classe, con i suoi modi semplici, con le sue pop song.
È cresciuto insieme a quelle ragazze che negli anni Settanta cantavano a squarciagola appoggiate a una panchina nel parco le sue canzoni e sospiravano l’eternità dell’amore. Era l’uomo da cui ottenere un’incontenibile felicità. La malinconia (Al bar si Muore), il sogno (Chimera), la speranza (Non son degno di te), la delusione (Fisarmonica), tutti brani che iersera, in Piazza Napoleone, ha eseguito, mentre il cielo grigio si rischiarava con lampi e tuoni che non sono riusciti neanche per un attimo a preoccupare la platea.
Cambiando giacca di continuo, blu, rossa, oro ha concluso il suo tour estivo, senza mostrare stanchezza, quando riprendeva fiato era per divertire la folla con qualche aneddoto. Ha confidato che Tenerezza l’ha registrata nel bagno di un ristorante, quando ancora era un militare di leva, il fonico si era ritenuto soddisfatto dell’acustica, inutile opporsi dice prendendosi in giro. Il pubblico ride, applaude, Gianni Morandi è così, non puoi non stare dalla sua parte anche quando con qualche imbarazzo ironizza con la sua assistente sul fatto che ormai il tempo sia passato e lui oltre ad essersi abbassato di qualche centimetro è per forza invecchiato.
Dopo Vita, ricorda Lucio Dalla, spesso la cantavamo insieme, racconta, e commosso attacca Caruso, è un’interpretazione imperfetta ma estremamente emotiva, il pubblico gli va dietro a bassa voce, come se avesse paura di contaminare l’attimo, ma quando finisce esplode in un’ovazione.
Una scaletta lunga, trentotto i pezzi, ma quando va a scavare nel suo repertorio di classici gli schermi ai lati suggeriscono un periodo lontano, rimandano le immagini in bianco e nero e su Fatti mandare dalla mamma anche le coriste rientrano con abiti anni Sessanta. In un mondo d’amore e il palco si colora di verde come il prato, saluta, ringrazia e fa presagire che sia tutto finito, ma quando ancora la gente non sa se credergli o meno, la band torna al suo posto e attacca una rockeggiante versione di Banane e Lampone. Nessuno a quel punto può restare seduto, c’è chi balla, chi alza il pugno come quando Federer vince una lunga partita e chi anche in una porzione di spazio risicata fa fare il giro alla sua bella.
Fate bei sogni, raccomanda e augura la Buona Notte.
Una signora mi stringe, alzandosi e con gli occhi che ancora luccicano, cerca le parole per farmi capire quanto è contenta, entusiasta, come se per lei al mondo non ci fosse niente di meglio.
Tutto è bene quello che finisce bene, stasera niente è stato ordinario o banale, i sorrisi di coloro che cominciano ad allontanarsi la dicono lunga sul motivo per cui come molti altri deve continuare a cantare.