Prosegue la prolifera epopea degli emiliani Giardini di Mirò che eleggono l’inizio del prossimo settembre la decade adeguata per il nuovo disco dal titolo Rapsodia Satanica. Nell’attesa dell’uscita ufficiale, è possibile ascoltare un estratto in rete dell’album sul canale you tube della band. Quaranta minuti completamente orchestrali dove le corde della chitarra, del violino e del pianoforte corrono ad offrire il proprio contributo laddove le corde, questa volta quelle vocali, mancano. Difatti, a due anni dall’uscita di Good Luck, l’ensemble si cimenta nella sonorizzazione dell’omonimo film muto del 1917 di Nino Oxilia, tratto da un poema del 1915 di Fausto Maria Martini. Un album in cui si avverte il riverbero di un forte misticismo unito a deviazioni melodiche fra il gotico e il medievale la cui impalcatura scheletrica, minimale e soffusa contribuisce alla sensazione di isolamento eremitico e cistercense.
L’ascesa in cadenza dispari della tracklist scandisce i momenti salienti della trama del film dal sapore fuastiano. Alba d’Oltrevita, anziana signora dabbene stringe un patto con Mefisto in cambio della restituzione della giovinezza perduta (I). Lo scambio ha un costo e lo scotto per Alba è il divieto di innamorarsi e di condividere con alcuno al di fuori di lei la purezza della nuova bellezza (III). Contesa dalle attenzioni di due fratelli, Tristano e Sergio, Alba rivolge la sua predilezione a Tristano e a nulla valgono le minacce di uccidersi mosse da Sergio per farla mutare d’animo (VII). Ferma nel suo intento e già disattendendo al patto raggiunto con Mefisto, Alba lascia che Sergio si dia la morte (XIII) e si prepara a sposare Tristano. Ma l’accordo è già infranto e Mefisto interviene riprendendosi la giovinezza donata e lasciando ad Alba i segni della vecchiaia, sprofondandola nello stessa decadenza della nobiltà del tempo (XVII). Uno scampanare luttuoso chiude le fila del disco e dalla parabola fatiscente in esso contenuta (XXI).
Sei tracce dalla numerazione romana che si susseguono secondo un virtuosismo anarchico, seguendo l’estro dell’improvvisazione o imbastendo toccate e fuga di brevissima durata, fugaci lampi d’isterismo che rompono l’interminabile palpitìo del disco. Ma in fondo è questa la vera rapsodia, un trasporto estatico il cui innesco può risiede in qualsiasi cosa; in un momento di ispirazione improvvisa, negli occhi e nel volto languido dell’affascinante Lyda Borelli, protagonista della pellicola del 1917 o meglio ancora nella composizione musicale, intesa come “scrivere su un foglio la musica interiore che si avverte” (citando Sergei Rachmaninoff che di rapsodie se ne intendeva).