Migliaia di chilometri, di palchi, di festival sparsi in giro molto oltre lo stivale, soprattutto in Francia fino a volare in Messico, sono una palestra durissima ma estremamente formativa, soprattutto se ci si sobbarca parecchio lavoro in prima persona e non si ha ancora trent’anni: ecco perché i Go!Zilla arrivano alla pubblicazione del secondo lavoro di ampio minutaggio, di uscita in questi giorni, con spalle larghe, scorza dura e un’esperienza che li ha resi assai consapevoli dei loro mezzi.
Assoldato un secondo chitarrista (Mattia Biagiotti) per viaggiare ancor più sicuri, Luca Landi e Fabio Ricciolo proseguono nel loro viaggio sul ponte ideale che, cinquant’anni fa o poco meno, si stendeva dall’Inghilterra alla California, un tragitto allo stesso tempo lunghissimo ed immediato in cui, fra gli elementi naturali del paesaggio, si stagliano dominanti due colonne chiamate garage e psichedelia. Ripulito leggermente il sound rispetto all’aggressività all’arma bianca di Grabbing A Crocodile, il trio di base pratese ha come obiettivo principale la declinazione postmoderna del rock ‘n’ roll, che mette in pratica forse nell’unica maniera possibile, ossia nel rispetto dei classici, rendendoli comunque estremamente personali. Per chi volesse, dentro c’è dai Sonics alle cariche dei Dead Kennedys (più che altro nella tranche di mezzo dell’album), dai chitarroni primi anni ’90, che ora sembrano così fuori moda, a sferzate punk senza volgari power-chords, bensì con accordi aperti che sovente viaggiano in parallelo, in un felicissimo corto circuito temporale che unisce il 1966 dei Pink Floyd e i primi ‘80 dell’american hardcore.
A riff che si stampano in testa dopo un solo ascolto, quali quelli del singolo Melting (con tanto di falsetti come se i Beach Boys avessero trasportato le tavole sulla costa britannica dieci anni dopo) o della title track, i cui incisi di chitarra sembrano provenire diretti dal “Jack Rabbit Slim’s”, i Go!Zilla accostano con sapienza voci effettate e tenute volutamente dietro nel mix, quasi a sottolineare che a dover essere protagonista non è la melodia, bensì l’intera squadra. Le due chitarre si puntellano l’una sull’altra, di ripieno o solista a seconda dei casi, e con assoli acidissimi (decisamente la cosa migliore del disco) si ritagliano spazi memorabili, mentre la batteria di Ricciolo non vive un attimo di respiro, fra cavalcate tambureggianti e sessioni decisamente più tirate (l’horror surf di Looking In The Mirror e la sfuriata di Down In Your Thoughts).
In questo pastiche così serrato, volutamente citazionista ma organizzato e confezionato con indubbia sagacia e con l’innegabile merito di non sbrodolare i tempi e di non sembrare più di ciò che vuole essere (un disco divertente, il che, follia, è diventata una rarità), trova spazio l’asso nella manica, che la band saggiamente tira fuori all’ultimo: un allucinato viaggio nella giungla messicana (Xilitla, meta del tanto girovagare del trio) su una barca allestita da Les Baxter con un bel po’ di stupefacenti. E andandola a cercare su Google Maps si capiscono tante cose.
Si intuisce che questi 33 minuti di questo (bel) disco sono, in definitiva, puramente esemplificativi, in quanto territorio naturale di Landi e soci è, naturalmente, l’esibizione dal vivo: ed è altrettanto naturale che un prodotto così appassionatamente esterofilo fatichi ancora un po’ a trovare in Italia palchi paragonabili, per numero ed importanza, a quelli calcati all’estero.