domenica, Novembre 17, 2024

Gumo – No One: in esclusiva il video di Juri De Luca e l’intervista

Il nuovo singolo dei Gumo tratto dal full lenght "The Dark and the Water" è anche video. "No One" è una splendida ricognizione fotografica della Milano del 2012, ma anche una sollecitazione e ripensare la metafisica dell'ascolto: un walkman passa di mano in mano. La musica gira e segna il tempo. Vietato skippare. In esclusiva su indie-eye videoclip

No One” è il secondo video estratto da “The Dark and The Water“, l’album dei Gumo uscito lo scorso 16 ottobre per Fresh Yo! label. Sul “sonic pop” degli apolidi toscani avevamo già parlato per il lancio di Asking, primo estratto dal full lenght e torniamo a farlo, ospitando l’anteprima della clip diretta per loro da Juri De Luca e montata da Linda Cencini
Il video di “No One”, girato prima del lockdown dello scorso marzo è interpretato da  Emmanuel Smith, Marco “Secco” Marchetta, Matteo Lucafò, Tommaso Sancini, Polina Chevan e Marco Pezza
Come la musica dei Gumo, il video apre una breccia nel tempo e guarda agli anni novanta con vitalità e presenza, un movimento tutt’altro che nostalgico e vicino alla rifondazione di un modo di vivere e pensare suoni e immagini. 

Un walkman e una cassetta passano di mano in mano, occupando il centro di un racconto possibile e in fieri. Video semplice ma stratificatissimo, che sollecita la necessità di contatto e condivisione, ma anche una riflessione più acuta su quello che abbiamo perso con la smaterializzazione dei supporti, perché il movimento della meccanica, il tempo della registrazione e quello dell’ascolto, oltre l’ostacolo materico, disegnavano maggiormente uno spazio metafisico da conquistarsi, non certo un simulacro già dato.

Nel tracciare lo scorrere del tempo, il lavoro di Juri De Luca, entro la cornice contratta del videoclip, individua un’aura squisitamente cinematica. Un riferimento personalissimo per chi scrive va al primo, intensissimo film del Taiwanese Jing Jie Lin, The Most distant Course.

“No One”, girato nel 2012, a soli due anni dal lancio ufficiale di Instagram, ne anticipava l’estetica, ma in una direzione materica e artigianale, recuperando quindi il senso e l’aura delle Polaroid con uno spirito molto simile a quello ricercato da Linda McCartney con i suoi Polaroid Diaries.

Il risultato è sorprendente, perché con l’ostinazione e l’onestà di un artigiano, De Luca ha tracciato un percorso visivo inedito tra le strade della Milano contemporanea, recuperando l’aura con cui i dispositivi analogici catturavano la luce. Come leggerete dall’intervista, si tratta di un processo digitale e quindi di una ri-mediazione di quei metodi, ma allo stesso modo non ha niente dell’istantaneità dei dispositivi di condivisione attuali tutto filtri e pre-set, perché elabora un particolare processo di archeologia filologica sulle immagini.

Juri De Luca, classe 1976, oltre ad essere il bassista dei Gumo è un fotografo Aretino che ha lavorato per più di dieci anno a Milano, specializzandosi in fotografia di moda, pubblicità e collaborando con brand di altissimo livello come Bulgari, Fernet Branca e Zedda Piras.
La sua specializzazione in termini fotografici è quella “still”, oltre alla riceca sulle tecniche fotografiche del passato. Oltre alla commissione per un report fotografico sul mercato privato dei fossili in tutto il mondo , pubblicato sul numero di Ottobre 2019 di National Geographic che è diventata cover story nelle edizioni Cinese, Tailandese e Serba, ha pubblicato anche per riviste come Stern, Corriere della Sera, Glamour, Vogue Gioiello, Vanity Fair. Juri è anche membro di The Photo Society, un collettivo che conta più di 170 aderenti in tutto il mondo, tra i fotografi di National Geographic.

Juri De Luca, l’intervista sul making di “No One” per i Gumo.

Juri, sei un fotografo di grande talento e allo stesso tempo suoni il basso nei Gumo. Solitamente come metti insieme i due aspetti?

Oltre a suonare il basso per i Gumo, come appunto dicevi, sono colui che si occupa della parte visiva del progetto, dagli artwork alle foto, fino ai video. Di solito siamo piuttosto autonomi nel gestire il lavoro che riguarda la band, a partire dalla parte musicale, fino alle registrazioni e al missaggio. La stessa autonomia investe anche la parte visiva.

Quindi in termini pratici, se esiste questa autonomia, come discuti con gli altri l’idea di un video e come hai discusso in particolare quella di No One?

L’idea della musica che passa da una mano all’altra l’aveva avuta Linda Cencini, la mia compagna, che poi ha curato anche il montaggio del video. Ne abbiamo discusso insieme con gli altri componenti della band ed è venuta fuori la trovata del walkman che passa da un proprietario all’altro nei modi più improbabili. Ci sarebbe piaciuto essere anche protagonisti del video, ma già in quel periodo tutti e tre vivevamo in città diverse; io a Milano, Alberto Serafini a Austin e Manuel Schicchi in Toscana. Per questo motivo hanno affidato a me le riprese e la realizzazione del video.

Puoi raccontarci qualcosa sul making: dove lo avete girato, gli attori coinvolti, il modo in cui è stato organizzato il set e la post-produzione?

Il video è stato girato a Milano nel 2012 in un paio di pomeriggi, con attori improvvisati e rimediati tra amici e colleghi. L’unico attore di professione è Marco Pezza (n.dr. – Marco Pezza è autore e attore di teatro, fondatore di alcune compagnie teatrali e vincitore del premio di drammaturgia contemporanea Ugo Betti 2019) l’ultimo in ordine di apparizione, anche lui amico e fan del gruppo.
Abbiamo girato in zona Navigli, nella vecchia fiera di Senigallia, parco Sempione e in metro, rigorosamente senza permessi e usando i pochi mezzi messi a disposizione da un paio di amici fotografi: una steadycam e uno spallaccio per una canon 5d mark II. Abbiamo usato la luce naturale, non solamente come scelta stilistica, ma perché senza permessi sarebbe stato impossibile fare altrimenti; in questo, l’eterno grigiore di Milano ha aiutato ad avere la continuità narrativa.

Avevo già un’idea precisa di quello che volevo, in termini di color correction, ma non essendo un Videomaker in senso stretto, non sapevo lavorare con i vari programmi di post-produzione digitale. Quindi, sempre per fare tutto da soli ho esportato tutte le clip in fotogrammi singoli e ho processato le immagini con software a me più congeniali tra cui Capture One e Photoshop. Poi ho rimesso insieme i fotogrammi e ho passato tutto il materiale al montaggio.

Sicuramente non è stato il sistema più veloce ma avendo sempre utilizzato le vecchie polaroid, cercavo, soprattutto in quel periodo, un modo per avvicinare le immagini digitali a quello stile. Cosa che poi l’avvento di Instagram e dei suoi “filtrini” ha reso di nuovo di moda.

Il video ha un approccio diverso dal solito, si respira un’aria più vicina al cinema indipendente degli anni novanta, quando Dave Markey girava per i Sonic Youth. Si e trattato di una scelta deliberata?

Il nostro background musicale è sicuramente legato agli anni 90 e ai gruppi per cui Dave Markey girava: Nirvana, Meat Puppets, Mudhoney e decidendo di fare un video che racconti una “storia” dall’inizio alla fine mi è venuto spontaneo usare uno stile narrativo che è proprio dei video di quegli anni.

Della clip mi ha colpito molto la freschezza, molto vicina a certi racconti di formazione, ma anche il collante narrativo affidato ad un oggetto della memoria come il walkman. Che cosa ti e vi ha spinto a concentrare lo sviluppo possibile delle storie che si intrecciano a partire da un oggetto ormai lontano dall’uso comune delle giovani generazioni?

Il walkman è stato scelto sia per una questione estetica che per una questione puramente affettiva: noi siamo cresciuti ascoltando quei gruppi in cassetta. Ci piaceva l’idea del nastro perché quel tipo di tecnologia richiedeva un’attenzione maggiore: si ascoltava la musica una canzone alla volta e nell’ordine in cui un artista aveva deciso di metterle, il termine skippare non esisteva ancora.

Il walkman a cassette, diversamente dai dispositivi digitali preposti per l’ascolto della musica, scandiva il tempo in modo diverso, anche come prassi. C’è una riflessione sul tempo nel tuo video?

Direi che la riflessione che volevamo affrontare è quella sull’importanza di fare girare la musica.
Il caso della nostra band è un esempio in questo senso: per varie vicissitudini personali questo disco è stato fatto, finito e messo in un cassetto per qualche anno, finché non ci siamo resi conto che la musica ha senso solo se è condivisa, poco importa se per scelta, rubata, venduta, regalata, dimenticata o lasciata lì apposta per essere trovata, l’importante è che la musica vada in giro e trovi la sua via.

Lo stile di ripresa è molto lontano dall’ipercinetismo dei video attuali e più vicino ad un’estetica foto-cinematografica. Hai portato il tuo background all’interno? Puoi dirci secondo te in che modo?

Io sono un fotografo e questo sicuramente si nota nel video: ci sono molte riprese su cavalletto e questo rende tutto più statico, se vogliamo. Forse può essere vista come una scelta controcorrente rispetto ai videoclip che vediamo ultimamente oppure un difetto. Sicuramente il risultato è più vicino ad un’estetica cinematografica e fotografica.

Farai altri videoclip dopo questo con i Gumo?

Stiamo lavorando ad un nuovo video per un’altra canzone del disco. Anche stavolta mi sono complicato la vita scegliendo di fare un video con un po’ di hyperlapse, stop motion e altre cosine che fanno perdere un sacco di tempo. Sono riuscito, prima di questa pandemia, ad andare a Austin per scattare tutto quello che riguarda la parte di Alberto e a breve, lockdown permettendo, dovremmo finire di realizzarlo.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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