sabato, Novembre 2, 2024

Holidays futurisme: Venice to Venice – foggy days and sunny nights: la recensione

Claudio Valente è una delle figure più importanti della new wave italiana, basta pensare a progetti come gli Art Deco, i Circle, i Definitive Gaze, i Revolution ed infine i Telegram, tutte creature Venete che in un certo senso ri-definivano i confini tra le influenze albioniche dagli anni ’80 in poi e la tradizione cantautorale Italiana. Valente approda al primo esperimento solista nel 2009, realizzando un album intitolato emblematicamente “un Po'(p) più adulto” dove probabilmente introduceva per la prima volta elementi di derivazione glam-rock, affrontando una strada di forte impatto comunicativo grazie anche alla collaborazione con il chitarrista Simone Chivilò, con il quale aveva collaborato ad una serie di live, tra cui uno dei primi tributi dedicati a Nick Drake in italia, prima che diventasse di gran moda farlo. “un Po'(p) più adulto” deviava quindi dal percorso di ricerca caro a Valente, ma non certo in modo negativo, perchè rimane un album fondamentale per capire l’evoluzione del musicista di Mestre, anche in funzione di questo suo nuovo lavoro che è una convincente summa del suo talento. Nel 2011 esce un album che re introduce le influenze wave parzialmente abbandonate, “Maschere Nude” è un lavoro malinconico, che guarda alle radici del passato in modo anti-nostalgico, proponendosi come esperimento liminale, in una forma non distante dai lavori solisti di Giancarlo Onorato, nel filtrare trent’anni di musica rock, basta ascoltare uno dei singoli estratti, quel “Nera” che sta tra blues e un pop-rock di derivazione ottantiana, con i sax del Bowie post Scary Monsters che spingono il brano verso territori cari a molte “guitar” band della seconda metà degli anni ottanta, una per tutte gli Hurrah, band di newcastle nota per un singolone come “How Many Rivers” pubblicato nel 1987. Non è un caso che Valente, sempre nel 2011, pubblichi un album di cover insieme alla chitarra di Chivilò e l’armonica di Riccardo Grosso intitolato “Nel pop dipinto di blues”, dove attinge a piene mani dai classici della musica angloamericana privilegiando comunque gli anni ’80 (Bronski Beat, Duran Duran, Depeche Mode, Madonna) e introducendo l’album con un classico glam come “20th Century Boy” dei T-Rex. Invece di scegliere un’interpretazione filologica, Valente e soci continuano quindi nel loro percorso di “dispossessamento” delle radici, re-interpretando tutti i brani della raccolta in una chiave blues del tutto particolare, stomp box inclusa, con molto spazio per l’improvvisazione (sopratutto nei live del tempo). E se il pop giocoso e molto italiano di “Lei non esiste”, pubblicato nel 2012, sembra introdurre una stagione più orientata al rock italico di latitudine “nord”, ovviamente potendoselo permettere, non è questa la strada del nuovo progetto veicolato dietro il nome di “Holidays futurisme”, un’etichetta identificativa che è tutto un programma, considerata l’ironia e l’intelligenza che Valente ha dimostrato in questi lunghi anni di carriera, fatti spesso di accostamenti non banali, a tratti filosofici ma sempre con un’idea ben presente, almeno da un certo momento in poi, ovvero quella di giocare con le forme della musica popolare, contaminando i risultati con elementi che sono diventati esperienza dopo esperienza, quasi cross-mediali. Basta pensare al fatto che l’esperienza live rimane del tutto centrale nell’attività di Valente, che per promuovere il nuovo progetto ha scelto come location gallerie d’arte, musei e spazi non convenzionali, come per l’evento “Rockin’ the Gallery”, presentato alla galleria d’arte Mestre Contemporanea, con il light painting della fotografa Marzia Dal Gesso e una scenografia ispirata all’arte di Vito Campanelli a far da sfondo, ovvero di un’artista la cui carriera comincia, come quella di Valente, negli anni ’80 e che ha fatto della trasformazione legata al tempo, la memoria, il flusso psichico, un elemento distintivo. Una scelta emozionale, questa, che attraversa tutti i brani di “Venice to venice – foggy days and sunny nights” le cui intenzioni sono quelle del travelogue tra la nostra Venezia e la Venice Beach Californiana. Il risultato è quello di un album di grande forza rock ed emotiva, un viaggio elettrico che riabbraccia la lingua inglese e che parte sin da subito sotto il segno di un’energia scura e minacciosa con l’opener Radio Silence, che è anche il primo singolo, un hard blues potentissimo con le tastiere sullo sfondo che recuperano l’espressionismo wave degli ottanta, e una carica che ha chiare ascendenze Bowiane, che forse rimane il nume tutelare di tutto “venice to venice”, non tanto per riferimenti diretti, ma per uno spirito poetico che oscilla tra introspezione e racconto pop, espressionismo poetico e grande energia elettrica. Fanno parte di questa ispirazione brani come Falling Down, dove il cantato di Valente si avvicina all’indolenza e al romanticismo di Iggy Pop, ovvero quella di un crooner “sghembo” che ha conosciuto lo spirito del “punk” molto da vicino, e ancora tracce come Rain from the sun, Fall from sunday, A wish e su un piano diverso la splendida 17 Miles Drive, tra west coast e la narrazione pop di Bob Mould. E non ci sembrano affatto più deboli o distanti dalla forza coesiva dell’intero lavoro, gli episodi più acustici, attraversati dalla stessa forza affabulatoria, per citarne uno, “Better Go While It’s Still Fun” che si avvicina alle influenze più intimamente “jazz” di Lou Reed o le più introspettive Serenade e Soul Singers Never Sleep Alone, quest’ultima traccia dalla consistenza quasi astrale, con un wurlitzer sullo sfondo e una frequenza in onde medie che fa sembrare il brano come un racconto lontano, adatto per il romanticismo di Valente, che quando si esprime mantiene tratti del tutto visionari come il Bowie tra psichedelia e pop, quello di “Love song” o più avanti di “Cygnet Committee”. Accompagnato dalla chitarra e le parti elettroniche curate da Simone Chivilò, dalla batteria di Virginio Belligardo, “Venice to Venice” segna il ritorno di uno degli autori più importanti e vitali del nostro rock, sopratutto in un periodo in cui la “precarietà” dei progetti autoriali che vengono dal belpaese, rispecchiano l’autolesionismo di una generazione (quella nuova) con uno scarso bagaglio di idee personali, e una mancanza preoccupante di serotonina, tutto il contrario della storia avventurosa di Claudio Valente.

Ugo Carpi
Ugo Carpi
Ugo Carpi ascolta e scrive per passione. Predilige il rock selvaggio, rumoroso, fatto con il sangue e con il cuore.

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