Tre anni di attesa hanno preceduto l’uscita del quarto disco della band eretta ad alfiere del rock indipendente nostrano, almeno su quel podio ideale condiviso insieme ad Afterhours e Verdena. Il percorso tracciato ad oggi dal Teatro è stato caratterizzato da una felice e ben nota contaminazione di post-hardcore a stelle e strisce e cantautorato italiano. Dopo le storie di poeti, guerrieri, attivisti per la libertà e da ultimo gli immigrati de Il Mondo Nuovo, disco che sarebbe interessante rileggere alla luce del recente, eccezionale risalto mediatico in materia, ciò che mancava al gruppo era affrontare un tema ancor più spinoso forse quello “definitivo”: l’Italia di oggi, “un Paese decadente”, nel quale per stessa ammissione degli autori ad esser decadute sono le persone, la gente stessa, superando così la consueta analisi della marcescenza istituzionale.
Dunque, in forza di tale premessa di partenza i rischi di populismo e sociologismo spicciolo devono dirsi abbastanza scongiurati. Da un lato le liriche riescono a dipingere un quadro azzeccato della contemporaneità, senza cercare il poeticismo del quotidiano come fa un certo tipo di neo-cantautorato nostrano; dall’altro però manca il ghigno beffardo e la violenta ferocia delle opere precedenti che riascoltate oggi, riescono a mantenere invariate potenza e crudeltà anche in termini strettamente sonori. Ancora una volta Pierpaolo Capovilla riesce a essere più convincente quando si mette a nudo e getta tutto se stesso sull’ascoltatore, in una specie di transfert triangolare “pubblico-performer-Paese reale” piuttosto riuscito e sanamente disturbante (il dramma di Benzodiazepina, la tirata dell’artista di Sentimenti inconfessabili, il quadro synth-pop di Una donna, il rovesciamento di prospettive ne Il lungo sonno in cui il colpevole è l’elettore e non il partito). Al contrario l’alchimia non si ripete quando si sposta sul terreno della denuncia: Genova non rende un gran servizio al tema trattato, stessa cosa per il singolo Lavorare stanca mentre l’opener Disinteressati ed indifferenti, per quanto strumentalmente efficace e poderoso, è un brano che spara un po’ a salve.
In tutto ciò la band, sulla qualità dei cui elementi non si discute, mantiene il consueto potenziale di fuoco qui rafforzato dagli innesti della chitarra di Marcello Batelli e dalle tastiere di Kole Laca. L’utilizzo di riff dissonanti, di un drumming con abuso di compressione (Valente è comunque in forma strepitosa) e di basso tutto corda è da anni il marchio di fabbrica del gruppo; a ciò si aggiunge una produzione magniloquente, per quanto lavoratissima, anche quando Favero si ispira ai lavori più tamarri di Trent Reznor come in Una giornata al sole, arrivando a virare addirittura sul catchy più spinto (Il lungo sonno, invero anch’esso azzeccato). Ma schierare sempre l’artiglieria pesante non significa per forza vincere la guerra: si prenda in esame Slint, una dolente ballata per piano e chitarre dilatate (il modello è evidente sin dal titolo) che poi deflagra nel miglior “orrore” partorito dal Teatro negli ultimi anni, complice anche l’adesione totale dell’interprete al proprio personaggio: un meraviglioso pugno nello stomaco.
Ancora una volta, dunque, si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad un gruppo che non ha ancora deciso che direzione prendere, se si considera che le coordinate sono ormai chiarissime da anni. Ancora in sospeso fra luci ed ombre, forse il disco definitivo – non si dica della maturità ma quello in cui il fine espressivo sia manifestato senza compromessi – deve ancora arrivare.