domenica, Dicembre 22, 2024

James Maddock – The Green: la recensione

James Maddock è inglese, di Leicester per la precisione, ma non si sente o quasi. Il nostro vive infatti ormai da una quindicina di anni negli Stati Uniti, dove ha dato vita alla sua carriera solista dopo le esperienze giovanili in patria con i Fire Next Time e il successo raggiunto per breve tempo, grazie anche a Dawson’s Creek, con i Wood a fine anni Novanta.
L’America era probabilmente nel suo destino, dato che fin dagli esordi la sua voce fu paragonata a quella di Sua Maestà Bruce Springsteen, cosa non del tutto inventata dai critici, basta anche un ascolto distratto per rendersene conto. Ora anche la sua musica è fortemente influenzata da quella del bardo del New Jersey, questo è innegabile, ma non per questo James deve essere aggiunto alla piuttosto folta lista di epigoni che da trent’anni a questa parte hanno cercato di ricalcare pedissequamente la musica di Springsteen.

Maddock riesce infatti a distinguersi dalla massa dei sosia dimostrando di avere una personalità forte, del mestiere, che in questi casi non fa male, e un bagaglio musicale che va oltre a The River e a Darkness On The Edge Of Town, andando ad abbracciare da un lato l’alt-country di autori come Ryan Adams e dall’altro generi più classici, dal soul-funk all’americana di autori come Steve Earle al rock FM di gruppi come i Counting Crows.

Oltre a questo James ha anche una buona penna, che in The Green raggiunge i suoi apici nella title-track, che può ricordare gli appena citati Crows con i suoi ganci pop, nella nostalgica ballatona acustica con tanto di violino piangente sullo sfondo My Old Neighbourhood e in Crash By Design, movimentata e quasi gitana, che rischia di esagerare con gli arrangiamenti ma che riesce a cavarsela alla grande.
Altrove la qualità non è così alta, come ad esempio in Let’s Get Out Of Here, dove entra un po’ di elettronica in chiave ritmica a dare un risultato poco entusiasmante, un po’ Rod Stewart anni Ottanta anche se meno tamarro, o in Driving Around, anche questa legata al decennio reaganiano e alla sua eleganza affettata, ma in generale il disco funziona piuttosto bene e vale sicuramente l’ascolto, per capire cos’ha oggi da offrire l’America springsteeniana, anche se cantata da un inglese.

Fabio Pozzi
Fabio Pozzi
Fabio Pozzi, classe 1984, sopravvive alla Brianza velenosa rifugiandosi nella musica. Già che c'è inizia pure a scrivere di concerti e dischi, dapprima in solitaria nella blogosfera, poi approdando a Indie-Eye e su un paio di altri siti.

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