Se dovessimo esprimere con una frase il lavoro di Radwan Ghazi Moumneh e della controparte visual curata da Charles-André Coderre, “poetica del confine” potrebbe essere quella più adatta. Sperimentazione come scambio semantico, fuori da quei percorsi obbligati che la stessa industria culturale, sopratutto quella musicale coeva, forza in un contenitore dai riferimenti angusti e legati ad un passato storicizzato, ri-proposto come citazione infinita.
Ma anche viaggio nomadico come possibilità di mantenere un occhio fisso sulle proprie radici mentre si perde il centro, geografico, linguistico ed espressivo.
Jerusalem in My Heart documenta in questo senso un’esperienza fluida dove il contrasto si manifesta su più livelli. Prima di tutto politico, basta solo pensare a come il “confine” descritto dalla foto scelta per il retro dell’artwork mostri bambini che corrono fuori fuoco come parte di uno scatto realizzato nel luglio del 2014, durante un ennesimo attacco israeliano sulla striscia di Gaza. In secondo luogo, musicale, per i continui innesti della tradizione araba in un setting elettronico che re-inventa tutte le occorrenze della drone music occidentale, riappropriandosi sostanzialmente della radice squisitamente mediorientale che era a sua volta alla base di quelle stesse modalità.
Che la stratificazione sia la via più indicativa di tutto il progetto è confermato dal lavoro di Coderre sulle immagini; lo scatto di cui parlavamo è la ri-mediazione di una foto, parte di un lavoro specifico del videomaker canadese, orientato alla sovrapposizione dei processi, dalla chimica al digitale, nello stesso modo in cui Moumneh mette in relazione il binomio voce/bouzouki con i beats e i trattamenti digitali.
If he dies, if if if if if if porta alle estreme conseguenze gli sconfinamenti e gli attraversamenti, elaborando continui stati di transito tra organico e inorganico anche in virtù di una radicale essenzialità. Diventa allora trasparente la vocalità di numerosi brani, condotta dalla presenza dei beats verso una scomposizione molecolare. Centrale è un brano come A Granular Buzuk, dove gli intarsi microtonali accolgono l’assalto di un synth, ma anche tutti quegli episodi dove le armonizzazioni vocali di Moumneh vengono pogressivamente disperse in un contesto sintetico, oppure l’incredibile tempesta di rumore statico che emerge da Qala Li Kafa Kafa Kafa Kafa Kafa Kafa dove i suoni tradizionali sembrano persistere sullo sfondo, mentre le macerie di un chaos post-tecnologico producono solamente feedback.
In un contenitore meno immediato rispetto a quello dei libanesi Soapkills, dopo il bellissimo Mo7it Al-Mo7it e la collaborazione con i SUUNS, il progetto Jerusalem in My Heart si conferma come uno di quelli più stimolanti usciti dall’ottima Constellation, suoni e immagini del limite che interpretano il dialogo tra culture attraverso il tempo.
Jerusalem in my heart – a granular buzuk