È dal “roeghiano” Insignificance che Jim O’Rourke non si faceva vivo con una raccolta di canzoni originali e se si esclude un tributo dedicato a Bacharach ottimo dal punto di vista formale ma assai discutibile sul piano della re-invenzione, sembrava che il nostro fosse destinato a dare il meglio di se nella forma estrema e dilatata della sperimentazione o al contrario nel lavoro di rifinitura e produzione. Tra il bellissimo The Visitor e le esperienze con Sonic Youth e Wilco l’artigianato combinatorio di O’Rourke era ormai un ricordo fermo a quei due album inarrivabili per immediatezza e complessità.
Ed ecco che arriva Simple Songs a sparigliare nuovamente le carte, perché di semplice, il nuovo lavoro del grande musicista americano ha tutto e niente, esattamente come Eureka!
La forza creativa che si liberava dal genoma Bacharachiano, individuando nella scomposizione di un modello i semi di un nuovo songwriting, tra pop, jazz e minimalismo, aveva la forza di quel “differire” tra due segni diversi, arrivandoci come un’interpretazione possibile e magmatica di tante storie del pop.
In Simple Songs, miracolosamente come in Eureka! il folk americano, Cat Stevens, i Duran Duran di Hungry Like a Wolf, gli Steely Dan, Peter Gabriel dei primi album solisti e la presenza spirituale del grande Harry Nilsson, quella che si rileva sopratutto da Nilsson Schmilsson, il suo album più intenso insieme al lennoniano e doloroso Pussycats, perdono contenuti e coordinate originarie per comunicare qualcosa di diverso.
È un po’ come se O’Rourke si fosse servito della sua esperienza con i Gastr Del Sol e anche del recente The Visitor per ricombinarne tutti gli intarsi e le derive, al servizio di un songwriting che racconta ancora una volta quanto il pop sia come un romanzo e lo slittamento delle soggettive una questione di talento narrativo.
Esattamente come Nilsson che dalla polvere di stelle di Gordon Jenkins, Irving Bell e Oscar Hammerstein ricavava un vero e proprio spleen esistenzialista, togliendo spettacolarità hollywoodiana a quei classici e rendendoli dei malinconici viaggi interiori, O’Rourke lavora su più tradizioni non certo per il gusto di una contaminazione citazionista fine a se stessa, ma al contrario per rilevare un interstizio, un elemento latente, quello che ancora non ci era riuscito scorgere.
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