C’è una fortissima alchimia nella scrittura di Joe Jackson, rimasta invariata durante i quarant’anni che celebrano il suo debutto per la A&M. La definizione è ovviamente soggettiva, ma dà ragione a chi lo ama incondizionatamente come ai detrattori. Nell’infedeltà al mausoleo dei generi che il musicista britannico ha praticato, niente è mai stato uguale a se stesso. Una straordinaria attitudine al tradimento che può essere osservata con il consueto distacco che si rivolge ai musicisti definiti frettolosamente a partire dal loro “eclettismo”, oppure assorbita come una rara manifestazione della creatività dove forma, groove e racconto interagiscono su piani diversi, ma con la stessa intensità.
La forma possibile del live è un confronto costante per Jackson, prima di tutto per l’attenzione a quella verità del suono spesso ricercata in forma autarchica attraverso il rifiuto della mediazione produttiva, oppure puntando alla flagranza della presa diretta, come accade nello splendido “Big World“.
Durante i suoi set i brani possono cambiare radicalmente, subire improvvise dilatazioni, assorbire la luce della produzione più recente, oppure tendere ad una brutale essenzialità. Il documento più utile per avvicinarsi a questo approccio è il doppio album pubblicato da Jackson nel 1988, dove un brano centrale e riconoscibile come “Is She Really Going Out with Him?” viene ripresentato tre volte e in forme del tutto alternative, lungo tutta la durata del vinile gatefold, nelle versioni registrate tra il 1982 e il 1986.
Lo show fiesolano comincia proprio con “Alchemy“, uno dei brani tratti dall’ultimo lavoro intitolato Fool, dove Jackson descrive il mistero dell’alchimia con una serie di impressioni visive legate tra di loro dalla forza del contrasto, dentro il contenitore della scena teatrale, metafora del mondo che tornerà più volte e in modo sottile, durante lo spettacolo.
Durante gli ultimi concerti, Jackson ha destinato al brano la posizione ellittica d’apertura e di chiusura, ma il primo movimento, quello che introduce il set, sorprende proprio perché conduce all’immagine di un sipario chiuso sul mistero, prima ancora che lo show esploda.
“One more time” attacca bruscamente da li, senza pausa e con quella furia punk che Jackson esprimerà al meglio durante tutto il concerto, anche se apparentemente inchiodato da piano e tastiere.
“Is She Really Going Out with Him?” mantiene alto il livello di partecipazione, beat e suoni sono quelli più vicini all’originale; questo consente ad un’ala dell’anfiteatro di Fiesole, quella più preparata, di rispondere a tono con i “Where?” che scandiscono le strofe.
Con la punta del piede sollevata e il tallone destro puntato a terra, Joe tiene il ritmo per tutto lo show, quasi a trattenere una rabbia ancora indomita, trasmessa a tutti i presenti attraverso il flusso di un’energia positiva. La dimensione è spesso quella del dialogo e del gioco, a partire dalle “migliaia di insetti” che dal retropalco “suonano” insieme alla band e dalla copiosa nuvola di spray repellente che decide di applicarsi con un gesto divertito e ribelle, subito dopo aver introdotto Night and Day con la bellissima “Another World“, trascinata verso un memorabile assolo di basso di Graham Maby, collaboratore storico di Jackson.
L’occasione della serata è celebrativa, ci dice Joe, quattro album, uno per ogni decade, per ricordarci che seduto a quel piano, scrive canzoni e pubblica dischi da almeno 40 anni. Un range che non sarà circoscritto ai quattro lavori scelti per costruire la setlist e che riserverà più di una sorpresa.
I brani che seguono sono entrambi tratti da Fool, due descrizioni della stessa disillusione, declinata con toni apparentemente opposti; “Fabulously absolute” si integra perfettamente con il furibondo carnevale di Look Sharp, tra velocità uptempo e le contraddizioni di un cinismo giocoso, che ancora una volta descrive la rabbia come unico antidoto al politicamente corretto. Quell’ansia, si trasforma con “Strange Land” nella visione allucinata di New York 36 anni dopo Night and Day, dove il senso di estraneità e l’alienazione rispetto ad un assetto urbano stravolto, descrivono il deambulare di un fantasma nella città delle luci.
La stesso spleen, risuona e si riflette in “Goin’ Downtown“, il brano successivo che la band di Jackson esegue, tratta da quel Laughter and Lust dove Joe vestito da carcerato, ricorda l’arte comica di Buster Keaton nel suo trascendere verso il tragico.
Un mondo spaccato in due da definizioni identitarie binarie è quello descritto in “Real Men“, capolavoro chamber pop a cui fu affidata la responsabilità di promuovere Night and Day nel 1982.
Il brano viene trasformato da una dilatatissima base dub che si trascina lungo tutta la sua durata, ad introdurre un trittico che include “Invisible Men” e “It’s different” for girls“, due dei brani fuori dal range celebrativo delle quattro decadi, dove Teddy Kumpel insegue l’introspezione della chitarra di Bill Frisell, dimostrando una versatilità notevole che caratterizza la nuova band di Jackson.
“Adoro questo personaggio che si affaccia in molti dei lavori Shakespeariani – dirà Jackson nel presentare la title track del suo ultimo lavoro – perché il Fool non ha un cazzo di rispetto per l’autorità“. Di nuovo l’incontenibile energia anarchica del musicista britannico che in “Sunday Papers” vomita tutto il suo sdegno contro la lettura della realtà operata dai tabloid, un’invettiva ancora attuale e pertinente.
Corpo e anima, energia che ringhia e assenza di gravità, questi gli opposti che Jackson abita da anni con invariata forza, inserendo frammenti bossa e latin jazz nell’ordito della canzone pop, oppure per spezzare la vocazione integerrima di certe interpretazioni punk, che per altri musicisti sembravano territori intoccabili, da affrontare con atteggiamento militante e pentecostale, l’altra faccia del politically correct.
Il piano ha quindi una funzione liberatoria che disancora per un attimo dal groove, lo riaggancia, lo abbandona per preferire mete più meditative e poi lo recupera mettendo insieme la nuova onda della bossa con quella delle numerose wave anglofone.
“You Can’t Get What You Want (Till You Know What You Want)“, uno dei singoli che veicolava il bellissimo Body and Soul del 1984 rimane entro queste forze antipodali; scarnificato per far emergere quella controparte punk che era sommersa dai fiati lanciatissimi nella versione da studio, attacca in modo secco e deciso, sostenuta dal drumming dell’ottimo Doug Yowell, un concentrato di adrenalina ed energia in un metro e sessanta scarsi.
L’energia doveva essere evidentemente troppa, tanto da creare un sovraccarico emotivo e tecnico. L’impianto elettrico salta, la linea tradisce i musicisti, sembra una reazione a catena di un blackout che ha interessato tutto il centro di Firenze, come cercano di spiegarci timidamente.
L’amore e il desiderio del pubblico sono altissimi, tanta l’intensità e la generosità offerta da Jackson e la sua band fino a questo momento; l’impasse tecnico consente a tutti di rivedere alcuni video registrati con il cellulare durante lo show, riascoltare alcune versioni dei suoi brani più famosi su youtube. Nella società connettiva l’attesa può rappresentare un problema, per chi scrive, cronicamente senza i soldi per fare una ricarica quindi always disconnected, un’occasione per riflettere su quello che ho ascoltato, gustandomi la pausa come quello spazio, assolutamente musicale e coinvolgente, che si crea tra la facciata A e quella B di un vinile, nel rituale dell’ascolto.
Lo show riprende dopo un quarto d’ora circa dal punto dove si era interrotto; la pausa sembra aver ulteriormente caricato Jackson che esegue “You Can’t Get What You Want (Till You Know What You Want)” con gioia e ferocia in egual misura; il brano diventa un’altra cosa, deprivato dalle saturazioni sonore dell’originale, è un’ode alla forza del proprio desiderio che come in uno specchio, riflette la sua impermanenza nella successiva “Ode to Joy“, tratta da Fast Forward del 2015, dove l’amore per Beethoven diventa una gustosa parodia dell’Inno alla Gioia fino alla conclusione con la postura di un fermo immagine, che oggi chiameremmo tristemente mannequin challenge.
Don’t say no / When you feel / Joy, una breve sospensione del tempo per attaccare nuovamente con una furibonda versione di “I’m the man” affidata in chiusura al drum solo di Yowell, rimasto da solo sul palco prima dell’uscita di rito che precede l’encore.
“Steppin’ out” è forse il brano simbolo di Night and Day e del Joe Jackson abbacinato dalle luci di New York, dagli standard Jazz, dalla canzone “classica” statunitense, ma anche dal soul di Marvin Gaye, la cui storica raccolta pubblicata dalla Tamla nel 1970, “Super Hits”, è visibile appoggiata su una cassa nella grande foto interna che si estende per tutta la superficie gatefold del vinile pubblicato dal musicista britannico nel 1982.
Il synth pop intimista di Jackson farà scuola e arriverà nel pieno di quella rebirth of cool britannica che accomunerà molte uscite di quegli anni, tra influenze Jazz, tradizione pop britannica ed elettronica di consumo.
Jackson decide di regalarci una versione filologica, teatralizzando l’esecuzione del brano con l’introduzione della Drum Machine originale, consegnata al batterista da un assistente vestito quasi come il Dr. Beat dei Miami Sound Machine.
Un gioco, intendiamoci, ma rientra nella capacità di raccontare una storia e recuperare suoni che i nostri scellerati anni trainati dalla necessità dell’hype ad ogni costo, rilanciano come mai sentiti.
Jackson è un animale da palco con alle spalle un’esperienza durissima, quella che racconta in “Gravità Zero“, tra le cicche degli spettatori buttate sulla tastiera e le risse nei pub, ha imparato ad allestire un teatro brechtiano che entra ed esce dalla realtà senza camuffare il “falso” con il “vero” e viceversa. Tenero ed emozionante vedere un veterano come Graham Maby alle prese con il glockenspiel, mentre il rullante dell’incontenibile Yowell scandisce il tempo, in sintonia con il drumming monolitico del pop anni ottanta.
Un tuffo nella sintesi, sonora e narrativa, di quegli anni, interrotto dalla velocissima “Got the time” che nei primi novanta conquistò anche gli Anthrax.
Jackson la conduce con grande forza, con quel cantato parossistico, tra spoken word e un’interpretazione punk di certi isterismi scat.
Quasi alla fine del brano, con l’elettricità al massimo, si genera un nuovo sovraccarico che tradisce per la seconda volta i musicisti.
Al di là degli accidenti del caso, ci piace pensare sia la bellezza del rischio, quello di mettersi in gioco durante uno show, quando i concerti sono al contrario diventati grandi e infallibili macchine da guerra, dove non c’è spazio per respirare né per gli imprevisti di cui è ricca la vita.
Alla fine di una setlist poderosa, una delle più belle eseguite da Jackson in Europa durante i recenti concerti, quel piccolo difetto nel sistema che toglie d’improvviso elettricità e fiato, ci è sembrato un momento vivissimo, vulnerabile e attitudinalmente punk.
Lo spirito “Fool” di Jackson è come una terapia elettroconvulsivante; ci prende e ci abbandona, in una danza tra euforia e disillusione.