Aspettiamo con ansia e trepidazione l’unica data italiana di John Cale in un momento celebrativo ma allo stesso tempo furiosamente creativo come quello che mette al centro la rilettura dinamica del proprio passato. Il recente reboot di “Music for a new society” nel progetto complessivo intitolato “M:FANS” ha influenzato tutti i suoi concerti del 2016 in una stimolante ri-scrittura potenziale del suo repertorio, consegnandoci serate memorabili, mentre la più recente ristampa del live datato 1992 e intitolato “Fragments of a Rainy Seasons“, nuovamente disponibile in versione “doppia”, potrebbe ricondurre il piano al centro di un’esperienza magica e minimale come quella dei concerti di quegli anni. A questo si aggiunge la celebrazione dei cinquanta anni per “The Velvet Underground And Nico” che il nostro onorerà con un concerto dedicato a quelle canzoni il prossimo 26 maggio a New York.
Venerdi 14 luglio il musicista gallese sarà ospite di SUMMER IN FABRICA per l’unica data italiana prevista alle 21:30 presso Fabrica, il centro di ricerca sulla comunicazione di Benetton Group attivo sin dal lontano 1994 e situato in Via Postioma al 54/f di Catena di Villorba in provincia di Treviso.
Cale per l’occasione alternerà i brani della sua ricchissima carriera solista ai classici dei Velvet Underground.
I biglietti per l’evento si trovano da questa parte su Mailticket: http://www.mailticket.it/evento/10706
Noi ne approfittiamo per ripercorrere “infedelmente” la carriera di uno dei più grandi compositori viventi.
John Cale, unica data italiana presso Fabrica, l’evento su FB
In tempi recenti John Cale è stato impegnato nella ristampa e in alcuni casi nella riscrittura del suo straordinario catalogo. La più recente uscita si riferisce a “Fragments of a Rainy Seasons“, il live che la Hannibal Records pubblicò in CD e in VHS nel 1992. La nuova edizione doppio vinile e doppio CD curata dalla Double Six / Domino contiene la tracklist originale e alcune outtake che non erano ancora state pubblicate. Chi è riuscito a vederlo dal vivo durante quel tour straordinario, si ricorderà un set semplicissimo, ma dalla grande intensità. Cale al centro del palco con il pianoforte e per alcuni episodi, con un’acustica martoriata, traccia di quella relazione con l’angoscia e la follia che ha attraversato tutta la sua carriera. Era una prima, evidentissima, operazione di demolizione, ri-scrittura e rinascita delle sue canzoni, qualcosa di molto diverso da una raccolta, un repertorio, una reverie nostalgica.
L’artwork del disco riporta un passaggio dal Macbeth
Banquo: Stanotte pioverà
Primo Sicario (mentre si avventa su di lui per pugnalarlo): Lascia che piova
Questa relazione con il dolore in “Fragments…” passa dalla scarnificazione del suono, una tendenza che è presente anche nei suoi lavori più articolati e arrangiati. Oltre alla versione dell'”Hallelujah” di Cohen, realizzata prima di quelle di Buckley e Wainwright quando era ancora un brano oscuro, torna “Heartbreak Hotel“, cavallo di battaglia dei suoi concerti, apparsa per la prima volta nel bellissimo “Slow Dazzle” pubblicato su Island nel 1975. Insieme ad “Helen of Troy“, uscito lo stesso anno, contiene l’anima di un crooner ma anche tutta la furia che verrà assorbita dalla cultura post-punk, prima ancora dei suoi memorabili album live registrati al CBGB.
Mentre un titolo come “Save us” anticipa alcune intuizioni di Nick Cave, la riscrittura del brano di Presley è un punto medio esatto di questa duplicità. Se la versione eseguita dal vivo nel 1981 per lo show televisivo spagnolo dedicato a Kevin Ayers e condivisa con Andy Summers alla chitarra privilegia l’isteria e l’incedere allucinatorio del punk, quella contenuta in “Fragments…” è un duello con il piano che confina la discesa agli inferi nella devastante sezione conclusiva.
John Cale – Heartbreak Hotel, live 1981 – Tv Spagnola (Musical Express)
Lo straordinario video di “Hallelujah” diretto da Abigail Portner, uscito sei mesi fa per promuovere la riedizione di “Fragments..” e una settimana dopo la morte di Leonard Cohen, lo vede seduto al piano mentre grilli e vermi invadono prima la tastiera, poi il suo volto, trasformando l’elegia Coheniana in un racconto dolente sulla morte e la decomposizione del corpo, immagine non nuova per Cale, basta pensare al video di “Perfect“, realizzato per Black Acetate (2005).
John Cale – Hallelujah
Nato nel 1942 a Garnant, un piccolo paesino posto al centro della regione mineraria gallese, conduce un’infanzia durissima, segnata dai continui ricoveri per bronchite e dalle allucinazioni causate dagli sciroppi oppiacei. Mentre la madre si ammala di cancro, John ancora adolescente viene molestato dall’organista della chiesa che gli offre lezioni di musica. Nella sua autobiografia descrive questi momenti con parole di terrore e ineluttabilità, le stesse che in qualche modo attraversano buona parte delle sue liriche, dove la minaccia squarcia l’idillio, esattamente come nelle poesie di Dylan Thomas, parte del repertorio di “Fragments..” e li ridotte all’osso rispetto alla bellissima esperienza orchestrale di “Words for the Dying“, l’album del 1989 prodotto da Brian Eno che omaggiava il grande poeta e drammaturgo gallese.
John Cale – Do Not Go Gentle Into That Good Night
Il talento per la composizione e la passione per pianoforte e viola lo allontanano dal paese natale per seguire i corsi di musica del Goldsmiths College a Londra e proseguire successivamente a Tanglewood negli Stati Uniti su stimolo di Aaron Copland. Il lavoro come commesso in una libreria e la suburbia Newyorchese, importante incubatore per la musica sperimentale di quegli anni, diventano il milieu formativo per Cale, che assorbe tutte le contraddizioni e le asperità del contesto urbano come ispirazioni dirette per la sua musica.
Sono gli anni in cui La Monte Young, Marian Zazeela, Yoko Ono, John Cage, Terry Riley, Cornelius Cardew, Morton Feldman, Tony Conrad, Pauline Oliveros, Steve Reich, Philip Glass e lo stesso John Cale sperimentano forme d’arte “concreta” attraverso l’azione unitaria del movimento Fluxus.
L’esperienza più formativa sarà quella fatta nel 1964 con La Monte Young e il suo Young’s Theatre of Eternal Music dove sperimenterà le strategie della ripetizione, una musica regolata da principi matematici ma allo stesso tempo caotica, ossessiva, dronica.
L’anno successivo Cale viene ingaggiato dalla Pickwick records per suonare con una band chiamata “The Primitives” che stava promuovendo una canzone intitolata “The Ostrich“. L’autore è Lou Reed e per l’occasione accorda le corde della chitarra tutte sulla stessa nota ottenendo una tensione ossessiva e ipnotica, la prima radice intuitiva di un futuro prossimo venturo, mascherata nella confezione di un twee pop sgangheratissimo e selvaggio.
The Primitives – The Ostrich (Pre-velvet – 1964)
Cale, Reed e il chitarrista Sterling Morrison insieme al batterista Angus McLise avviano una band chiamata The Warlocks, successivamente Falling Spikes ed infine The Velvet Underground. Andy Wharol, dopo aver visto i Velvet suonare al Café Bizarre diventa il loro primo manager insieme al cineasta Paul Morrisey. Maureen Tucker rimpiazzerà alla batteria McLise a partire dal 1967 proprio quando la band inserirà il contributo di Nico, già vicina alla factory Wharoliana. Nasce il primo album della band, il fondamentale “The Velvet Underground and Nico“, con la storica banana dipinta da Wharol, completamente sbucciabile nelle primissime stampe del disco.
“White light/White heat“, disco più estremo ed ostico, viene realizzato nel 1968. “Consciamente contro la bellezza“, come lo ha definito Cale stesso, segna l’inizio della lunghissima separazione tra Reed e Cale; le strade si biforcano e l’anima più oltraggiosa, senza compromessi e coraggiosa dei Velvet sopravvive nella produzione successiva di Cale, anche quando riesce ad esprimersi all’interno di un involucro apparentemente più pop.
The Velvet Underground – Sweet Jane (live 1993 – re-union)
Il songwriting di Cale mostra da subito il suo dualismo attraverso album come “Vintage Violence” (1970) e i successivi e interamente strumentali “Church of Anthrax” (1971) e “The Academy In Peril” (1972), il primo dei quali condiviso con il minimalista Terry Riley. E se “Paris 1919” (1973) rimane ancora oggi il suo album più pop, questo introduce una dimensione malinconica e un senso elegiaco della perdita che rimarrà costante in tutta la sua produzione.
Ma è da “Fear” (1974) in poi che gli arrangiamenti orchestrali, gli archi e la costruzione pop tornano a complicarsi con una lunga stagione furiosa ed elettrica che arriverà fino ad “Honi Soit” del 1981.
Se “Fear” confina la follia nei due episodi più disturbanti, la title track e la lunghissima e velvetiana “Gun”, “Honi Soit” conclude la fase “punk” di Cale, attraversata da tre capitoli dimenticati e fondamentali come il live registrato al CBGB, il furiosissimo “Sabotage” trainato dalle percussioni di Deerfrance, preceduto due anni prima dall’Ep “Animal Justice“, pubblicato su Illegal Records, l’etichetta di Miles e Stewart Copeland dei Police.
John Cale – Guts (Live on KEXP) – 2012
L’EP contiene due brani di Cale e una cover di Chuck Berry, l’incendiaria “Memphis”. Ma è “Chicken Shit” l’episodio più intenso. Il brano è ispirato al noto incidente del “pollo” avvenuto nell’aprile del 1977 durante un concerto a Croydon in Inghilterra. Cale acquista una mannaia in Germania, si ferma poi in una fattoria e preleva un pollo. Lo porta con se all’Hotel Portobello e lo decapita nel backstage all’insaputa dei componenti della band. Nascosta la mannaia, chiede all’assistente di palco di passargli il piatto di legno con l’animale decapitato durante l’esecuzione di “Heartbreak Hotel”. Mentre sotto il palco infuria il mosh dancing dei ragazzi punk, Cale mostra il pollo alla folla e lancia corpo e testa separatamente in mezzo al pit. La band disgustata si allontana da Cale, il batterista Joe Stefko (vegetariano) lascia il palco mentre il “padrino del punk” rimane praticamente da solo a fissare un pubblico inebetito e attonito. Questa furia irrazionale rimarrà incisa nel semi-ufficiale “When The Cowgirls Get the Blues“, forse il documento più importante del periodo, con un John Cale in stato di grazia, anticipatore del post punk e delle intuizioni noise.
Poco prima della nuova edizione di “Fragments…” Cale, nel 2016, ha ristampato uno dei suoi dischi più difficili, il quasi improvvisato “Music for a New Society” di cui realizza anche una nuova versione, intitolando la doppia operazione “M:FANS“: “è giunto il momento di sterminare la disperazione del 1981 – ha dichiarato per spiegare l’operazione – e di respirare nuove energie, scrivendo una nuova storia” . Album algido e senza speranza, monodico e nient’affatto seducente, serve a Cale come banco di prova per il dittico successivo, i sintetici “Caribbean Sunset” e “Artificial Intelligence” quest’ultimo genoma da cui il buon John Grant ha prelevato (quasi) tutto.
Nella riscrittura l’album rinasce a nuova vita e ripercorre quegli anni con disincanto e un approccio maggiormente contemplativo.
John Cale – Close Watch (Official Video)
Ma ciò che conta è la percezione di Cale nei confronti della (sua) arte, mai concepita come un oggetto statico, sempre identico a se stesso, ma al contrario attraversata da un’incerta e salvifica fluidità. Una riscrittura che non è nuova per Cale, basta pensare alle due, tre, quattro, infinite vite di un suo brano attraverso la relazione tra studio e palco.
La stessa vita che ci aspettiamo ogni volta da un suo concerto, tra follia e desiderio, stile e distruzione dello stile.
The trouble with personalities, they’re too wrapped up in style
It’s too personal, they’re in love with their own guile
(Trouble With Classicists – John Cale & Lou Reed, Songs For Drella)
In love with the trance of her dances
And abandoned by them
John Cale – The Soul Of Carmen Miranda (Brussels, 1992)