Le migliori preghiere capovolte portano dritte all’inferno. Lo dicevamo in relazione a tell me why don’t you love anymore, eppure John Grant introduce e chiude il suo nuovo album con un estratto dal tredicesimo capitolo della prima lettera di San Paolo ai Corinzi, quello dove la carità “tutto sopporta”. Ha trovato la pace oppure si tratta di un’ellisse apparente? Mentre la versione “intro” viene sommersa definitivamente da una catastrofe sonora, l’uscita passa attraverso la voce purificata di un bambino.
Amare ed essere amato, una propensione che emerge da tutti i brani di Grey Tickles, Black Pressure, proprio all’interno dei due estremi descritti in ogni dove a mezzo stampa: crisi di mezza età e incubi. Giusto per fugare qualsiasi dubbio, il musicista di Denver non perde un’oncia della sua caustica ironia, se ne intendiamo il senso come capacità di osservare tra le pieghe del reale e del proprio percorso, senza restituire per forza un’immagine riconciliata.
Certo, rispetto all’automatismo gelido di Pale Green Ghost, il nuovo lavoro mantiene un piede nel territorio elettronico ma libera l’altro al ritmo di un plastic soul contaminato da funk, disco , ritmi latini e persino frammenti di un doo-wop corrotto nell’incredibile Voodoo Doll, non così distante da Thomas Dolby quando sedeva sul lettino dello psicanalista e immergeva il languore di Dan Hicks in mezzo alla pece più nera. Non è per forza un segno festoso, al contrario, perché si batte il ritmo digrignando i denti ed esclusi due episodi melò e la ballad Down Here, già di per se molto più stratificata e Bowiana di quel che appare, tutto il resto è un continuo duello tra la vita e la morte che si chiarisce nelle parole dello stesso Grant, giusto per fugare le interpretazioni sin troppo manichee che sono circolate per raccontarci solamente un lato o l’altro della medaglia: “Sono molteplici le angolature da cui osservi le canzoni tanto da poter rispondere alla stessa domanda in mille modi differenti, anche perché un giorno di questi, ci arrivi da un posto diverso. Ed emergono cose sempre nuove”
Se allora la title track assume il tono confessionale di un’autobiografia eretica, dove la nostalgia per la New York dei settanta sembra evocata come una possibilità aurorale rispetto agli anni recenti occupati dall’HIV, allo stesso tempo in Global Warming Grant si prende gioco di alcuni processi sociali e identitari come tracce di una sconfortante ignoranza. Sono rovesciamenti che si verificano anche nello spazio di una sola canzone, basta pensare ai tropici fasulli che sembrano emergere dai suoni di Down Here, mentre tra il battito delle percussioni latineggianti si fa strada il barrito inquietante di un oboe e il sorriso nasconde la paura. È lo stesso contrasto che, in successione, si verifica tra il freddo apocalittico di Black Blizzard e un sorriso diverso, quello sul volto della persona amata in Disappointing.
In fondo, un brano come Geraldine, che si aggiunge alla galleria di Grant fatta di personaggi Hollywoodiani liminali, è l’opposto speculare di Ernest Borgnine. Nella vicinanza dolente che dimostra nei confronti della Paige e del suo crepuscolo d’attrice, i versi “Geraldine, tell me that you didn’t have to put up with this shit” diventano lo specchio di un’agnizione personale.
John Grant – Disappointing – official video