Il palmo aperto di una mano cerca di varcare la soglia del visibile, sfiorando i confini di una sorgente luminosa. Un’immagine che nell’ultimo video di Josephine Foster rimane radicata, per recursività e per le analogie con tracce simili e famigliari di un certo immaginario, da Videodrome a Poltergeist, da Il signore del Male a Exotica.
Il gesto della percezione tattile è iconologia che cerca di superare gli ostacoli bidimensionali dell’immagine per porre un limite tra ciò che è formalmente inquadrabile in una cornice e tutto ciò che rimane fuori campo.
Se c’è una prassi che ci mette costantemente in relazione con ciò che non si può vedere, è quella del filmare, poco importa la qualità, aurorale o meno, dei dispositivi in gioco.
Josephine sceglie la bassa definizione, utilizza dispositivi e formati eterogenei, ma tutti ascrivibili alla portabilità digitale. Non ritaglia i formati, non li aggiusta, seguendo una prassi ormai acquisita del videomaking, ma spingendola verso la dimensione artigianale del costruire senso, trapassando la cornice formale.
Il gesto, così vicino a chi utilizza le mani come bio-tensori per cercare fluidi, sembra allinearsi alla qualità divinatoria del titolo.
Del resto, Domestic Sphere, l’imminente album di Foster che Fire Records pubblicherà il prossimo sette aprile su vinile e CD, viene descritto come una seduta spiritica, le cui energie confluiscono dal field recording inciso nei luoghi dove vive, da quelli dove si reca a suonare, fino al tentativo di restituire una dimensione interiore, con le voci famigliari di chi non c’è più.
Storie dei fantasmi della veglia che si accordano con il proprio spirito e quello del vento, per popolare un radiodramma extrasensoriale in due atti.
Il significato di questa definizione diffusa a mezzo stampa ha già alcuni spunti inscritti nei suoni e nel video di Pendulum.
La sovrimpressione, compresenza di mondi e stati percettivi, è il lessico principale, come se Refractions di Bobby Gentry venisse radicalizzata attraverso il filtro etnomusicale che appartiene alla poetica di Foster, per ottenere astrazioni e asimmetrie polifoniche.
Sovrimpressione di voci, suoni e riflessi aurali della natura, un’eco non indirizzabile, un’altra fuori dai cardini del tempo percepito.
Nel video sono alcune foto del paesaggio osservato di nuovo dai movimenti Ken Burns del software, quella della mano sul limite della dissoluzione formale nella luce, lo sdoppiamento di un secondo paesaggio filmato, Josephine seduta con la chitarra in mano, collocata in verticale come tutto il video, ma sovrimpressa in posizione “corretta”.
E poi, un gufo.
Un gioco casalingo che dialoga tra presenza e assenza, cercando di utilizzare i propri occhi e le proprie mani, per disattendere gli automatismi delle intelligenze artificiali, utilizzando i dispositivi preposti con l’intuizione di un rabdomante. Il gesto, nella sua dolce e disperata ricerca di un superamento, rimane una questione materiale.
Non dovrebbe allora sorprendere la maschera di una grande scimmia appesa ad un segnale destinato ai pescatori della città di Fort Collins, probabilmente nei pressi dell’innevato Sheldon Lake.
Quali popoli e quale tradizione, oltre i confini di un paesaggio tra luce e crepuscolo, si accinge a “documentare” la nostra Josephine?