È un disco affascinante e oscuro l’ultimo di Julia Kent, sin dal titolo in aperta opposizione rispetto a quella banalizzante ricerca dell’armonia che esclude la frattura come origine di un isolamento dal mondo, in grado da sola di innescare catastrofi.
Prima ancora di descrivere la paura ancestrale del disastro, la violoncellista canadese suggerisce una definizione geologica di asperità, ostacolo inerte sulla linea della turbolenza. La paura, la colpa, le tenebre che avanzano lungo un percorso prima legato alla terra, poi interiore ed infine globale.
La Kent ha registrato l’album in totale solitudine, dentro il suo studio newyorchese, costruendo la superficie melodica dei brani sui semitoni, creando così un dispositivo implicitamente dissonante. “Sono tempi cupissimi quelli che stiamo vivendo – ha detto Julia – e credo che in qualche modo abbiano influenzato la mia musica”
Oltre al consueto lavoro di looping sul violoncello, la Kent si è servita di suoni elettronici ma anche di frammenti sonori catturati, proprio per creare un organismo inestricabile che dai numeri e dai dati passa improvvisamente allo stato naturale. Nel processo di sovrapposizione dei numerosi livelli si può sentire una fonte di calore, una fiamma difficile da estinguere che brucia al centro di questa massa sonora nerissima. Ecco che i suoni di passaggio raccontati da Julia nel bellissimo Podcast registrato per indie-eye nel lontano 2007 all’interno di una camera d’albergo, perdono il contatto con la dimensione transizionale rilevata tra agglomerato urbano e vuoto (gli aereoporti, gli alberghi, le stazioni, luoghi appunto di transizione) per trovarne una simile collocata sulla linea di un bordo dalla difficile definizione.
Julia Kent non documenta più la trasfigurazione dei suoni residuali prodotti dalla civiltà come faceva in Delay, né come in Character sperimenta la vita segreta degli oggetti sfiorati, improvvisamente rotti o semplicemente a contrasto con una superficie che riveli nuove caratteristiche strumentali. Asperities trova una forma espressiva ulteriore oltre la natura delle cose, per esplorare l’insondabile.
I luoghi allora sono quelli di Lac Des Arcs, insediamento senza personalità giuridica nei pressi di Alberta, in Canada e percorso dal fiume Bow, dove la densità umana è bassissima e la Kent sembra scandagliare il fondersi della terra con l’acqua. Un lento abbandono della civiltà che è suggerito da titoli come Flag of no country, Terrain, Empty States. Sorprende in questo senso l’affinità con le musiche scritte da Jóhann Jóhannsson per l’ultimo film di Denis Villeuve, Sicario, sospese tra l’ossessivo incedere di un battito cardiaco in emersione e il contrasto tra deserto e una civiltà votata all’autodistruzione. Come nella musica del compositore islandese, in questa della Kent non si scorge uno spiraglio di luce, basta ascoltare il lamento di Empty States affidato agli archi, mentre sullo sfondo soundscapes dalla consistenza tellurica sembrano indicarci una città ormai sepolta tra le rovine.
L’artwork del cd creato con la tecnica del collage da Anthony Gerace spezza e innesta due ritratti femminili, gioca con l’illusione ottica suggerendo i difetti della carta, gli strappi, il cartone sgualcito. Immagine dell’asperità, ma anche relitto della memoria.
Anche il bellissimo video di Invitation to the voyage diretto da Carmen Jiménez, con cui la Kent aveva già collaborato per le musiche del cortometraggio Oasis, filma le increspature dell’acqua, i riflessi della luce notturna, le asimmetrie della terra, quasi fosse una traduzione in movimento del pensiero di David Hockney sulla fotografia: tracce di un’immagine nel suo farsi oppure nella sua dissoluzione formale, ma anche stratificazione dei punti di vista, possibili e impossibili.
L’unica dimensione dinamica allora è quella della fuga dai cimiteri della civiltà. In questo senso Asperities non è uno dei soliti esperimenti sonori votati irrimediabilmente alla meditazione; perché se la Kent ci restituisce il senso dell’isolamento rispetto al mondo mentre questo rimane presente sullo sfondo nella sua imponente agonia, il movimento del ritrarsi è attraversato da suoni lancinanti, ostinati ossessivi, linee sonore che si intersecano creando contrasto; un invito al viaggio, una tensione tragica senza catarsi che finisce in mezzo alle raffiche gelide della Tramontana.
Julia Kent – Invitation to the Voyage – il video di Carmen Jiménez