Con July Marissa Nadler arriva a quota sette album in dieci anni, una discografia che diventa dunque assai corposa restando fedele alla linea tracciata ad inizio carriera, quella di un cantautorato folk con radici ben salde nella tradizione americana, appalachiana essenzialmente, in Joni Mitchell e nel suo fingerpicking e in testi evocativi e potenti, il tutto portato in territori più onirici grazie a strumenti ed arrangiamenti usati con leggiadria e amore per il dettaglio.
Al settimo episodio di siffatte caratteristiche potrebbe anche emergere la noia quindi, specie in questo mondo musicale in cui la fedeltà alle proprie traiettorie viene vista come un disvalore e in cui ci sono molti esempi illustri di quella che io chiamo la sindrome di Bowie, cioè la voglia di fare tante cose diverse e di sperimentare, dimenticandosi però di non essere David e di non avere le sue immense doti. Marissa invece va avanti per la sua strada, e per questo merita stima, perché dimostra una volta di più di avere ancora molto da dire e di poter esplorare stilemi che conosce a memoria cogliendone la bellezza e mostrandocela in una serie di canzoni capaci di muoversi tra perfezione formale ed espressione di sentimenti puri ed atavici, orgogliosamente demodé.
Il mood generale dell’album è piuttosto ombroso, lontano sia dalle ballad abbastanza ariose di The Sister che dalle prove più pop di Marissa Nadler, l’unico disco in cui la nostra si è allontanata, anche se non troppo, dalla via maestra che abbiamo descritto. Questa volta ci vorrà dunque uno sforzo in più per entrare nel mondo di Marissa, ma la fatica sarà ripagata dalla qualità delle canzoni che ci si ritroverà ad ascoltare. Questo sia negli episodi più mitchelliani, in cui è il fingerpicking a caratterizzare il suono, come nella traccia di apertura Drive (Fade Into), annunciata da uno dei suoi ormai classici falsetto, che in quelli più folk-country, con la chitarra suonata in modo più convenzionale, ad esempio Was It A Dream, dove entra anche l’elettrica, che in quelli dove è invece il pianoforte a tirare le fila della melodia, come nella breve ed avvolgente I’ve Got Your Name, che non sfigurerebbe nella discografia della Cat Power più ispirata.
Lunga vita a Marissa dunque, che il dio del folk la preservi così com’è, lontana da tentazioni mondane e vicina a ciò che sa fare benissimo.