mercoledì, Dicembre 25, 2024

Kali Malone – Trinity form, live @ Biennale Musica 2023: recensione

Straordinaria Kali Malone alla Biennale Musica 2023. Nascosta in cantoria con Stephen O'Malley e Lucy Railton, ha eseguito un prima mondiale Trinity Form, suonando l'organo a canne del 1754 situato nella Basilica di San Pietro di Castello a Venezia. Esperienza di sottrazione del visivo che diventa sonda e ponte tra ambiente e interiorità. La recensione

La relazione di Kali Malone con l’organo a canne ha una doppia valenza. Oltre alla sperimentazione microtonale messa a punto sullo strumento, prolungamento naturale dei suoi studi sulle accordature alternative a quella utilizzata in occidente, c’è anche la prassi specifica del restauro. La musicista americana, ormai da anni residente in Svezia, dopo un lungo apprendistato ha potuto approfondire la logica costruttiva degli strumenti antichi, con un’attività di messa a punto e di riparazione che gli ha consentito di conoscere ogni minima risposta di un organo alle condizioni ambientali del luogo che lo accoglie. L’accordatura pura, da conoscenza professionale diventa prassi d’ascolto e creazione di un sistema generativo per comporre la sua musica. I due aspetti sono interconnessi, e se in studio si può permettere microfonazioni ardite, attenzione ai singoli armonici in fase di registrazione, tutto cambia nello spazio performativo dove l’evento sonoro accade nello spazio-tempo.

Ospite della Biennale Musica 2023 diretta da Lucia Ronchetti, Malone ha proposto la sua Trinity Form con un ensemble collaudato, insieme a Lucy Railton al violoncello e a Stephen O’Malley alla chitarra acustica con e-bow.

L’organo suonato è quello all’interno della Basilica di San Pietro di Castello a Venezia, costruito nel 1754 da Pietro Nacchini, uno dei 500 realizzati dal noto maestro organaro. Con una sola tastiera e dieci registri, é incastonato all’interno di una piccola cantoria, appena dietro l’altare maggiore. Da una prospettiva frontale domina la Basilica, mentre gli esecutori sono nascosti come da consuetudine.

La dimensione visuale completamente sottratta, attiva una concentrazione diversa e consente di penetrare la stasi sistemica e apparente di Trinity form. Se la prassi dell’accordatura ha spinto Malone a comprendere profondamente la dimensione dello spazio armonico, la complessità di uno strumento a trasmissione integralmente meccanica, in termini esecutivi diventa anche una questione di concentrazione. I tre musicisti, pur lavorando contemporaneamente su timbri simili, ma con matrici numeriche di riferimento diverse, si sovrappongono a tratti sulle stesse ottave, allontanandosi progressivamente dal sistema microtonale impostato e trovando inaspettate risonanze. Ciò che é complesso e stratificato per loro in termini di riconoscibilità, consente anche a noi di perdersi.

Per chi ascolta, è un’avventura sonora indicibile, che si muove su più livelli. Il visivo negato, come dicevamo, è una benedizione. Consente di fondersi con l’ambiente e percepire ogni risonanza, anche quelle riprodotte da corpi estranei e dal respiro degli spettatori.

Sembra difficile una distinzione tra i timbri dell’organo e il lavoro sul violoncello di Lucy Railton, mentre Stephen O’Malley elabora altre sollecitazioni sull’acustica. Ma si allontanano improvvisamente, spostando l’asse percettivo su forme di polifonia spontanee, anche rispetto al controllo dell’esecutore stesso. É allora una questione di combinazioni, di possibilità, di aperture rispetto alla rigida disciplina dell’intelaiatura.

Trinity Form depriva la tradizione dell’organo a canne della sua dimensione ascensionale, proponendo un’altra strada sonora, che dalla stasi riesce a muoversi in direzioni inaspettate, anche con il peso storico dell’ambiente che ci circonda.

L’emozione passa allora da una scarnificazione della potenza assegnata allo strumento anche in termini storici, cultuali e politici. Fuori dall’estetica dominante di riferimento, Malone lavora cercando di sfruttare le risonanze naturali dell’ambiente e non forzando mai lo strumento affinché il primo venga riempito. É una traduzione contemporanea dello strumento, che attiva un altro dialogo rispetto a quello religioso, ma non lontano dalla dimensione meditativa.

Rimane spazio per altro, anche per un limite che risiede tra la frequenza del silenzio e l’inaudibile. Se di emozioni dobbiamo allora parlare, di fronte a questa straordinaria esperienza, queste non passano dalla generazione di “affetti” o dalla sollecitazione di sentimenti. Al contrario é il riconoscimento di un flusso psichico e legato all’intuizione intellettuale, da cui é possibile farsi condurre, e che proprio perché interno non corrisponde a gerarchie alto/basso.

La risposta allora non è davanti, nonostante la frontalità della disposizione, ma tutt’intorno fino a penetrare le viscere, in una terrificante e bellissima esperienza interiore, radicata nelle forme euristiche della logica microtonale.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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