venerdì, Novembre 22, 2024

Kanye West: Yeezus, Io sono Dio e voi non siete un cazzo

Diciamocelo, Kanye Omari West è diventato un personaggio davvero interessante solo nel momento in cui si è liberato dello zainetto Louis Vuitton e di quell’aria da bravo ragazzo nero della classe media, lasciando tracimare le proprie idiosincrasie come un fiume in piena. A partire da Graduation, l’immaginario coscienzioso à la De La Soul e i sample r’n’b/funk che costituivano il fulcro della sua produzione hanno ceduto il passo ai deliri religiosi – declinati secondo il futurismo dei Daft Punk e di Akira – ad abissi di auto-tuning e ad un’elettronica calibrata sull’asse Chicago/Detroit. Ironico che proprio Graduation – surclassando in termini di vendite Curtis di 50 Cent – abbia portato la critica ad applaudire la vittoria dell’ hip hop pensante sul ben più buzzurro gangsta. Ironico perché, per una qualche forma di contrappasso, West ha cominciato da allora a mostrare gli stessi vezzi (e vizi) di coloro ai quali veniva contrapposto. Complici una serie di vicissitudini personali, l’accresciuta fama e la cattiva influenza di Jay-Z, l’ego del nostro si è gonfiato come un pallone, e la sua immagine pubblica è diventata talmente larger than life da trasformarlo nell’equivalente rap degli U2. E anche se Kanye –  per sua stessa ammissione un uomo di Dio® – si guarderebbe bene dal celebrare violenza e armi da fuoco, quando tira in ballo le rappresentanti del gentil sesso non si fa certo problemi ad utilizzare i vocaboli bitch e hoe.
Ciò detto, è un fatto che il talento dell’artista in questione continui a crescere in maniera proporzionale al suo egocentrismo, tanto che il recente Yeezus – titolo che già di per sé è tutto un programma – si pone certamente come il suo miglior lavoro di sempre.

L’album vive di atmosfere oscure, sintomatiche di una precisa presa di posizione contro gli attuali standard mainstream. Ciononostante, è evidente come nemmeno in questo caso il nostro punti alla nicchia, quanto piuttosto a riformulare l’accezione comune di easy listening. Un tentativo di educazione delle masse che riparte da un suono aggressivo e prepotentemente sintetico. In cabina di regia siede anche il guru Rick Rubin, che assiste West con la sua naturale tendenza a procedere per sottrazione. Ne consegue che l’amministrazione dei beat diviene talmente parsimoniosa da conferire un incedere storto ed incespicante anche ai brani più tirati. Non fa eccezione in questo senso l’opener On Sight – scritta a sei mani assieme a Guy-Manuel de Homem-Christo e Thomas Bangalter – un martellante pattern elettronico che sembra continuamente sul punto di collassare. Kanye parte in quarta con la consueta modestia (Yeezy season approaching / fuck whatever ya’ll be hearing / fuck what? / fuck whatever ya’ll be wearing / a monster about to come alive again), fornendoci una spassosa panoramica sui suoi approcci nei club esclusivi (Soon as I pull up and park the Benz / we get this bitch shacking like Parkinsons / real nigga back in the house again / black dick all in your spouse again), e portando la pantomima alle sue estreme conseguenze (Took her to the ‘Bleau / she tried to sip the fountain / that when David Grutman kicked her out / but I got her back and put my dick in her mouth). L’arrembante rap-rock Black Skinhead – in cui West dimostra maggiore capacità d’introspezione, riflettendo sul suo ruolo di artista nero all’interno dello star system – è altrettanto minimalista: il brano vive praticamente di niente, giusto un pattern di batteria tribale ed il rapping esasperato del nostro, tutto urla ferine e cazzo duro. Con I Am a God – un allucinante power trip su bass sinth come trattori – la hýbris di Kanye raggiunge i massimi livelli, ed è subito delirio di onnipotenza (I just talked to Jesus / he said “What up Yeezus?” / I know he the most high / but I am a close high / I am a god / hurry up with my damn massage! / hurry up with my damn ménage! / get the Porsche out the damn garage!). New Slavesstatica eppure tesissima, tutta giocata sullo stesso, gotico motivo di sinth – torna ad affrontare tematiche impegnate, individuando nel denaro una subdola forma di oppressione che raccoglie l’eredità dello schiavismo (You see it’s broke nigga racism / that’s that “Don’t touch anything in the store” / and it’s rich nigga racism / that’s that “Come in, please buy more”). Nemmeno in tale contesto, tuttavia, il nostro risparmia la sua consueta dose di testosterone (You see it’s leader and it’s followers / but I’d rather be a dick than a swallower).

Se i primi quattro brani costituiscono un’unica ripresa techno/industrial, il secondo lato dell’opera concede più spazio al downtempo e ai pad ambientali, lasciando emergere una componente soul che sembrava definitivamente sopita. Tra scopate tristi in pieno dopo sbornia (Hold My Liquor), ricordi delle prime pastiglie calate insieme (Blood on the Leaves) ed impietose auto-analisi (Guilt Trip), Yeezy ripercorre le sue sfortune in amore, tornando a schemi narrativi articolati e nostalgici sulla falsariga di 808s and Heartbreak. A seguito di tanta sofferenza, come possiamo biasimarlo se cerca di distrarsi praticando il fisting alla prima squinzia asiatica di turno (I’m in It)? Del resto la vita va avanti. E dunque – dopo un breve interludio in cui si torna a ragliare, con tanto di sirene da stadio (Send It Up) – ecco che Kanye rivolge le sue dolcissime attenzioni alla nuova fiamma Kim Kardashian. Bound 2, magistrale mélange di sample vintage e nuove tecnologie, si rivela il pezzo meno in linea con le atmosfere tese di Yeezus, ma nondimeno rappresenta un piccolo gioiello. Il rapping di West (I wanna fuck you hard on the sink / After that give you something to drink / she asked me what I wished on my wish-list / have you ever asked your bitch for other bitches?) si sposa ai gorgheggi soul dell’ospite Charlie Wilson (I know you are tired of loving, of loving / with nobody to love / just grab somebody / no leaving this party), in una formula di sicuro impatto.

Certo, ci si può sempre schierare con gli spocchiosi che ritengono Yeezus una scopiazzatura dei Death Grips. Ma, almeno per quanto mi riguarda, un amalgama di suoni underground e paraculaggine così ben calibrato merita un plauso. 110 e lode.

Federico Fragasso
Federico Fragasso
Federico Fragasso è giornalista free-lance, non-musicista, ascoltatore, spettatore, stratega obliquo, esegeta del rumore bianco

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