“The rock is easy … the roll is a little more difficult, ya know”
In una delle pagine più esilaranti di Life, l’autobiografia pubblicata con grande successo nel 2010, Keith Richards racconta la rocambolesca fuga notturna con Anita Pallenberg e altri compagni di bisboccia tra le montagne dell’Atlante marocchino verso Marrakech alla guida di una Peugeot carica di “marjoun” dopo aver investito i militari in motocicletta alla testa di un convoglio che trasportava un carico davvero eccezionale: una testata missilistica. Lo scompiglio, la derapata, una ruota nell’abisso, un’occhiata nello specchietto retrovisore e BOOOM! appena dietro la curva il camion finisce nel burrone e il razzo esplode… (Life, Feltrinelli, p.220)
Discernere tra realtà dei fatti e romanzo nelle sue storie ha smesso di avere senso più o meno dalla prima volta che il chitarrista degli Stones ha raccontato di aver conosciuto l’idolo di sempre, Muddy Waters, negli studi della Chess di Chicago mentre il bluesman era impegnato a tinteggiare il soffitto, era il 1964. Allora quella fuga pirotecnica che sembra una specie di crasi tra i titoli di testa de “La donna del bandito” e la sequenza finale di “Un bacio e una pistola”, ci rivela qualcosa di essenziale nel modo di raccontare e scrivere canzoni di Keith Richards di cui esce in questi giorni il terzo album solista dopo “Talk is cheap” (1988) e “Main Offender” (1992). Un modo all’insegna del dualismo, dell’ellissi e della sincope in cui le canzoni germinano come organismi viventi.
In Crosseyed Heart dominano ovunque le tinte del noir rurale con tutti i suoi dualismi, quelli che fanno da sfondo – il dissidio tra la città e la campagna per esempio e il diverso contrasto tra luce e ombra – e quelli che stanno in primo piano – l’amore di coppia naturalmente, quello dei ‘partners in crime’, spesso segnato da un destino cupo, sempre complicato e ambiguo.
“Cause sometimes I live in the country / Sometimes I live in the town / And sometimes I take that great notion to jump in the river and drown / Irene goodnight Irene, Irene goodnight”
In questo senso la versione di Goodnight Irene di Leadbelly, gemella se possibile più sguaiata di quella pubblicata qualche anno fa da Tom Waits nella raccolta Orphans riassume bene la personale ‘Americana’ di Richards e avrebbe chiuso simmetricamente il cerchio di un disco che parte con l’omaggio al folk blues puro nel pezzo che dà il titolo all’album Crosseyed Heart. Se a Richards stessero a cuore le simmetrie, i pieni lineari e non i vuoti sincopati:
“I love my sugar but I love my honey too […] Oh she’s so sweet but she drives me around the bend / I go around the corner and I find another friend”
“That’s all I got” bofonchia Keith contraddetto dall’ingresso del beat incalzante di Steve Jordan che lancia Heartstopper, un rocker stonesiano che nel 2015 si può definire classico ma che rimanda specificamente alle sonorità anni ’80 della band (Wanna Hold You, 1983 e Can’t Be Seen, 1989) e in cui il dualismo di coppia è abbozzato nel modo più prosaico:“She’s a vegetarian and me, I love my meat”.
Seguono brani come Nothing on me un tipico rocker mid-tempo (o è una ballad sostenuta?) nato dalla costola di Demon (“Main offender”) e Amnesia che possono essere legittimamente interpretati come autentici frammenti autobiografici e nondimeno rimangono sopratutto straordinari bozzetti noir. Nel primo il Keith Richards braccato per una vita dalla narcotici e finalmente beccato come accadde nel febbraio del 1977 all’aeroporto di Toronto con l’hashish e l’eroina nel sacco, si trasfigura nel fuggitivo dalla faccia tosta per antonomasia il cui profilo è disegnato dalle ombre che lo perseguitano:
“You know they watch me like a hawk / They even took me for a walk / They tride to make me squawk / But they got nothing on me / No nothing on me / Not a thing”
Il secondo, in cui è palese il riferimento al cosiddetto “coconut tree accident” che nel 2006 mise seriamente in discussione la proverbiale immortalità del chitarrista, sembra più che altro la traccia di un plot alla Cornell Woolrich:
“Thought I met mother, she said you don’t belong to me / Behind you must be trouble, broken hearts and misery / Nowhere, I’m talking nowhere”
Tutti questi temi sono riassunti nella ballata desertica di Robbed Blind, un country per fuorilegge ed emarginati impreziosito dalla pedal steel guitar di Larry Campbell e diretta discendente di Locked away, capolavoro di Talk is cheap e a sua volta riconoscente del Ry Cooder coevo di Across the borderline.
“The cops, I can’t involve them / God knows what they could found / I learned a lesson from that girl whose faith is yet to be defined / Been robbed blind, robbed blind / Thank you sweetheart / Bled dry”
Taglio di montaggio, ellissi e qualche traccia più tardi, nel duetto scritto a quattro mani con Nora Jones, si ha quasi l’impressione di trovarci di fronte al preannunciato confronto tra i novelli Bonnie e Clyde. Le loro strade però sono sul punto di separarsi in un modo che rimane non detto, in un’atmosfera in cui s’intrecciano struggimento e rassegnazione, minaccia e desiderio. La sorte che attende la ragazza è ancora da chiarire:
“What’s this illusion in your eyes? / We see each other in different ways / A solution babe / But it’s not the one you’re thinking of / Such an intrusion in my soul / But I never said I’d let you go / This illusion is haunting me / But it’s not the one you’re looking for”
“Queste canzoni,” racconta Keith Richards a Anthony DeCurtis che ha curato le note di copertina, “Sono come drammi teatrali. Nessuno di loro va direttamente dalla A alla Z. E’ quello che mi piace di loro. L’amore perduto: ecco un’emozione particolarmente forte e di questa vuoi evocare il sentimento senza entrare troppo nel dettaglio degli eventi. Ecco che la memoria viene in aiuto. E’ la memoria di una sensazione piuttosto che il ricordo di uno specifico evento.”
Il dualismo luce/ombra del noir si addice bene alla scarna palette di Keith Richards e al suo modo ellittico di raccontare storie ma anche di intendere la composizione dei pezzi nel lavoro in studio dove la dinamica diventa quella tra suono e silenzio e i vuoti, i gaps, sono tanto importanti quanto i fills, se non di più. La grande devozione per la tradizione musicale americana bianca e nera e il modo di scrivere canzoni partendo da un cannovaccio abbastanza limitato di motivi fanno pensare all’ultimo Dylan, al Johnny Cash degli American Recordings oltre che, naturalmente a Tom Waits. In una recente intervista alla BBC Richards descrive così il processo creativo: “Il silenzio è la tua tela. Guardi al suono come silenzio assoluto e poi vedi cosa puoi farci. Proprio come un pittore, un po’ di seppia qui… e dove non mettere niente”.
E dove togliere. E se nei testi questo principio si traduce nell’uso dell’ellissi e nel levare dettagli procedendo per allusioni evocative e motti di spirito che danno il senso, il sentimento di una storia o di un personaggio, nella composizione musicale prende la forma della sincope: “Nella sincope è il “roll” sul “rock” che conta,” sentenzia Keith, “Si tratta di giocare un po’ con il ritmo. Spostandolo.” Ma per far questo avverte: “Occorre un batterista di prim’ordine che ti dia spazio di manovra, che ti consenta di forzare il tempo avanti e indietro sapendo di poter contare sul fatto che il ritmo è sempre lì”. Il resto è questione di timing e il timing è il semplice segreto per nulla nascosto della longeva grandezza di Keith Richards.
E’ questo il cuore del songwriting come procedimento “organico” come ama definirlo Keith Richards che lo declina da un lato in un modo più generico e assimilabile all’ispirazione in cui l’autore è un’antenna ricevente che capta le melodie e i riff. Archetipo di questa concezione è la nota storia della composizione nottambula di Satisfaction; dall’altro, in modo più interessante, attraverso un dualismo creativo che si traduce in studio nel rapporto simbiotico con il batterista. Archetipo di questo procedimento è la “scrittura” di Street Fighting Man durante le session per “Beggars Banquet” agli Olympic Studios di Londra nel 1968 con Keith a battere sulla chitarra acustica e Charlie Watts con il suo ‘snap drum kit’ – una piccola batteria portatile usata negli anni ’30 dai jazzisti per esercitarsi in treno – curvi sul microfono di un registratore Philips a cassette. A partire dalla metà degli anni ’80 Steve Jordan diventerà il fedele ‘sparring partner’ di Richards nei lavori solisti e così descrive, in termini boxistici, il “dialogo” musicale in studio con Keith: “E’ un incontrista, uno che colpisce d’incontro. Se hai un ritmo portante, lui si limita a entrare con un diretto, se gli lanci un colpo, lui risponde al volo.”
Non va però dimenticata la parentesi emblematica di Justin Hinds e dei due dischi targati Wingless Angels , frutto dell’amore di Keith per la Giamaica e la musica reggae e registrati nella sua casa di Ocho Rios divenuta negli anni settanta il punto di ritrovo dei musicisti locali. Justin Hinds aveva conosciuto una certa popolarità negli anni ’60 con diversi hit in ambito ska e rocksteady e bazzicava la scena di Steer Town proprio quando gli Stones sbarcarono nell’isola caraibica per registrare “Goat’s Head Soup” (1973). Così il produttore Brian Jobson descrive quelle session in cui il contrappunto tra la ritmica e la voce di Hinds da una parte e i ‘fills’ della chitarra di Richards dall’altra è stupefacente e letteralmente entusiasmante: “Facemmo jam per un paio di notti prima di entrare in studio così da avere una certa continuità. Microfonammo tutti i tamburi e c’era Justin da una parte col microfono per la voce e il suo tamburo. Era molto organico, capisci? Justin diceva, ‘Okay, partiamo con un ritmo’ e su questo cominciava a cantare…” (“Wingless Angels Vol I e II”, note di copertina) Da questo punto di vista è un peccato che l’episodio reggae contenuto in Crosseyed Heart sia molto lontano da quell’orizzonte sonoro decisamente spiritual. Si tratta di una fedele cover di Love Overdue di Gregory Isaacs farcita da una precisa sezione fiati proposta nell’edizione giapponese del CD nella versione dub del vecchio leone Lee Scratch Perry. Bisogna forse risalire proprio a Coming Down Again, splendido mantra junkie contenuto in Goat’s Head Soup e da allora mai rivisitato live per ritrovare un Keith Richards in uno spirito paragonabile.
Steve Jordan, batterista delle house band del Saturday Night Live prima e del Late Night with David Letterman poi, fa capolino già nelle note di Dirty Work, l’album uscito nel 1986 quando le frizioni tra i due ‘Glimmer Twins’ si erano ormai trasformate in quella che Richards avrebbe poi descritto come la “Terza Guerra Mondiale”. Con gli Stones a un passo dallo scioglimento il chitarrista chiama Jordan al suo fianco, mette in piedi gli Expensive Winos e, nel giro di pochi anni, scrive con lui due album e diverse canzoni, tra cui quella Almost Hear You Sigh che entrerà nella scaletta di Steel Wheels, l’album del “ritorno” degli Stones. Uno degli episodi più convincenti del disco e vero e proprio modello di quello che diventerà negli anni successivi il marchio di fabbrica di Richards: la ballata crepuscolare in bilico tra country e soul. Anticipata da All About You (Emotional Rescue, 1980) e soprattutto da Sleep Tonight (Dirty Work, 1986) sarà ricombinata continuamente negli anni a seguire: Make no Mistake e Locked Away (1988), Slipping Away (1989), Hate it When You Leave (1992), How Can I Stop (1997), Losing My Touch (2002), This Place is Empty (2005) fino ad arrivare alla serie che costituisce l’asse portante di Crosseyed Heart e che, alla soglia dei 72 anni, fa di Keith Richards un grande balladeer.
La macchina promozionale che in queste settimane sta lanciando l’album racconta di un Richards in panne dopo la pubblicazione di Life e il seguente tour promozionale. Con gli Stones in letargo prima del risveglio in pompa magna per il cinquantenario, Jordan convince Richards a riprendere in mano la chitarra e lo coinvolge in una serie di sporadiche session. E’ la storia della composizione di Crosseyed Heart che si protrae per diversi mesi e che è raccontata in un documentario, Under the Influence, diretto da Morgan Neville per la piattaforma Netflix uscito in contemporanea con l’album.
Keith Richards: Under the influence – Trailer (Dir. Morgan Neville)
Una volta incise su nastro le basi (l’album è stato registrato in analogico – “Amo veder girare quelle bobine!”) con Keith Richards a sovrapporre strati di chitarra, basso, piano e organo, il resto degli Expensive Winos sono stati chiamati a raccolta per completare l’opera in un secondo momento: Waddy Watchel, ulteriore trama nell’intreccio delle chitarre, Ivan Neville alle tastiere e il compianto Bobby Keys a fare da geniale contrappunto con il suo sax baritono in alcune tracce, Amnesia, Substantial Damage e Blues With a Feeling, l’ineludibile omaggio a Chuck Berry con i proverbiali stacchi chitarristici e il piano che pedala un boogie senza requie.
Sulla tempistica della composizione dell’album conviene puntualizzare alcuni fatti che aiutano a mettere in luce altri aspetti del procedimento “organico” caro a Richards. Crosseyed Heart, una riscrittura di 32:20 di Robert Johnson, viene in realtà dalle session di Voodoo Lounge (Dublino, 1993) mentre Trouble deriva apparentemente da un outtake intitolata Just Because e registrata a Parigi nel 2002. Nel video promozionale il faccia a faccia tra chitarra e batteria è messo in scena platealmente e, al di là dei dettagli sulle mani di Keith deformate dall’artrite è la giacca di pelle di serpente che sembra rubata al Sailor di Cuore selvaggio a suggerire un’altra forte linea di germinazione.
Keith Richards – Trouble – Video Ufficiale
Il pezzo è un omaggio evidente alle sonorità del rock and roll anni ’50 con i pezzi ritmati a suon di battimani (Eddie Cochran, Gene Vincent e soprattutto Buddy Holly), una specie di ritorno alle origini per Richards, ammesso che da quelle origini si sia mai realmente allontanato. Torna in mente a proposito una splendida intervista a Donovan sul songwriting in cui racconta: “Gli chiesi, Keith, come fai a scrivere canzoni? E lui con la faccia serissima: suono due canzoni di Buddy Holly di fila e la terza è la mia.”
Come si diceva Crosseyed Heart non si chiude simmetricamente con Goodnight Irene ma con un micidiale e nerissimo uno-due: Substantial Damage e Lover’s Plea. Quest’ultima è un omaggio al soul sudista e al sound Stax. Una commovente macchina a vapore tirata da ottoni mozzafiato e dal filologico organo Hammond di Spooner Oldham, inquilino fisso di Muscle Shoals ai tempi d’oro. Substantial Damage uno schizzo funky che riassume un po’ tutto quanto siamo andati dicendo finora riguardo al lavoro di Keith Richards sul ritmo, la tradizione e la scrittura. E’ l’ultimo pezzo registrato per l’album, germogliato da una jam di mezz’ora intorno alla rivisitazione del break mediano di If You Can’t Rock Me (It’s Only Rock ‘n’ Roll, 1974) appena modificato. Substantial Damage va ad allinearsi alla serie succinta ma bollente dei funk stonesiani: dall’intermezzo al calor bianco nella versione live di Doo Doo Doo Doo Doo (Heartbreaker) (1973) a Hot Stuff (1976), da Dance Pt.1 (1980), a Pretty Beat Up (1983) e Big Enough, diretto antecedente e collocato in apertura dell’esordio solista del 1988.
Questo articolo non sarebbe stato possibile senza l’aiuto, l’ispirazione e il dialogo con i fan di IOOR e in particolare di with sssoul, Mel Belli e Tumbled.