Lo scherzo è bello quando dura poco.
Per fortuna non la pensano così i Killing Joke di Jaz Coleman che ancora oggi, a distanza di più di trent’anni dalla fondazione del gruppo, sono vivi e vegeti sulle scene internazionali al ritmo di circa un disco ogni due anni. Quel circo delle assurdità che dal 1980 mette in scena in maniera grottesca e pessimista le vicende umane ha tagliato oggi il traguardo dei trentacinque anni: per celebrarli la band ha pubblicato due uscite, la prima delle quali è “The Death And Resurrection Show”, documentario distribuito in poche sale cinematografiche, che attraverso interviste e materiale inedito racconta la travagliata storia del quartetto. La seconda invece ha visto la luce lo scorso ottobre con “Pylon”, terzo capitolo di un’ipotetica trilogia composta da “Absolute Dissent” del 2010 e da “MMXII” del 2012, basata sul ricongiungimento della formazione originaria, che vede, oltre al solito Coleman alla voce e il chitarrista Kevin “Geordie” Walker, anche Martin “Youth” Glover al basso e Paul Ferguson alla batteria. Elaborato il lutto per la perdita di Paul Raven nel 2007, bassista che ha attraversato alcuni dei più famosi gruppi post-punk e industrial metal, figli più o meno diretti dei Killing Joke, come Ministry e Prong, ma forte di un’uscita eccellente quale “Hosannas From The Basement Of Hell” di un anno prima, la necessità di riunire ancora una volta le forze si è rivelata azzeccata perché dettata dalla necessità incrollabile di ribadire che quella scelta dal gruppo inglese fosse l’unica strada possibile e l’unica percorribile per loro. A parere di chi scrive, di gruppi come i Killing Joke, così fieramente testardi della loro identità, ce n’è un crescente bisogno: essere riusciti a mantenere una coerenza musicale e personale così forte in tanti anni, esposta a continui cambi di line-up nonché a possibili scioglimenti, ha del miracoloso.
Chi si avventurasse oggi nel mare magnum della musica rock più incline a sonorità cupe, tribali e altamente atmosferiche troverebbe nella band un punto fermo, e in quest’ultimo “Pylon” un ulteriore conferma della loro vivacità musicale.
“Pylon”, ovvero pilone o pilastro: riferimento dichiarato ed esplicito alle cosiddette torri GWEN (Ground Wave Emergency Network) dislocate un po’ dappertutto nel globo e che secondo Coleman altererebbero i campi geomagnetici per influenzare il clima e soprattutto la psiche dell’uomo, dai sentimenti ai comportamenti. Ma anche un pilone elettrificato simbolo dell’energia tellurica che attraversa la musica degli inglesi, da loro stessi definita come “the sound of the earth vomiting”, capace di evocare in maniera subdola ed immediata nelle menti degli ascoltatori immagini ben precise degne di un romanzo cyberpunk. Ed è proprio da questo che si misura la grandezza di un gruppo, dalla capacità di resuscitare e demolire a piacimento scenari, mondi, visioni come in un eterno show, al quale Coleman e compagni non sono estranei. La musica dei Killing Joke è la musica che accompagna una consapevolezza amara, mai totalmente pacificata con sé stessa: che tutto ciò che riguarda l’uomo è puro scherzo, e che oltrepassato il limite si tramuta in scherno e irrisione provocanti la morte.
Come a teatro, l’aspetto tragico e quello comico hanno da sempre convissuto nelle opere del quartetto, e “Pylon” naturalmente non fa eccezione. L’unica differenza è che il suono si fa qui più grasso, sporco e graffiato da schegge marcatamente industrial metal. Esso sembra appesantire il gruppo, schiacciarlo sotto il suo peso, avvolgerlo in una nube grigio-sporca, forse quella rete elettrica di basse frequenze che dalle torri GWEN si propaga alterando la percezione. Massimo Pupillo degli Zu, che con le basse frequenze ci ha sempre avuto a che fare, ha ribadito recentemente nell’intervista pubblicata su indie-eye che mai come in questi tempi si sente il bisogno di queste particolari frequenze; il vero problema è capire di che natura sono e come confrontarci con esse.
Il suono di “Pylon”, vera differenza sostanziale rispetto ai due dischi precedenti, fa virare il songwriting del gruppo verso il lato tragico della poetica dei Killing Joke, infatti su un totale di dieci brani, i più “danzerecci” e marcatamente post-punk sono solo due, “New Cold War” e “War On Freedom”; ma anche qui l’inquietudine è sempre presente, sotto forma di una forte tensione sempre pronta ad esplodere nel primo pezzo e di desolante abbandono nel secondo.
L’influenza di certo industrial e post-metal riecheggia nel resto del disco a più riprese, più nell’atmosfera e nell’andamento generale che nella scrittura, dimostrando come gli inglesi non solo abbiano influenzato legioni di artisti ma anche di come si siano lasciati influenzare a loro volta. Le caratteristiche fondamentali dei Killing Joke ci sono tutte, così come l’enorme classe, presente anche negli episodi leggermente più sotto tono come “Big Buzz” e “Device”, grazie anche all’ottimo lavoro in sede di coproduzione svolto da Tom Dagelty (già al lavoro con The Maccabees e Royal Blood). Se in “MMXII” il suono era più aperto, solcato da spasmi cyber, con canzoni più snelle e veloci, “Pylon” si rivela la sua controparte pesante, a volte marziale e cadenzata, col rischio di risultare anche troppo monotono, tracimante già a partire dal minutaggio abbastanza sostenuto per un disco targato Killing Joke.
Volendo creare un parallelismo con un altro album dello stesso tenore apocalittico sia in termini estetici che politici, ovvero “Cortar Todo” degli Zu, si potrebbe dire che lì dove il gruppo romano cercava continuamente una via di fuga da un pianeta in crisi, esortando l’uomo a cambiare prospettiva, i Killing Joke invece danzano sulle macerie di un mondo ormai alla deriva, prendendo atto che non è più possibile far nulla. Una corrispondenza cinematografica immediata potrebbe essere in una delle sequenze di apertura di Blade Runner: skyline solcato a perdita d’occhio da enormi grattacieli bui e disseminato da ciminiere che sputano fuoco, il tutto avvolto da una notte perenne; nel disco la voce declamatoria e folle di Jaz Coleman che rimbomba attraverso gli altoparlanti nascosti per la città, sembra provenire da qualche stazione radio pirata che rimbalza nell’etere.
Che lo scherzo duri poco o molto, non importa: i Killing Joke ci dicono che da esso non è possibile sottrarsi. E’ questo il senso ultimo di “Pylon” e del fascino della band: far cadere la maschera, per dimostrare che sotto di essa se ne cela un’altra. A noi decidere se ridere o piangere.