Trentacinque anni, da Philadelphia, già sei dischi in carriera: questo è, ad oggi, il sostanzioso curriculum di Kurt Vile, nome da predestinato, almeno foneticamente, e reduce da quel Wakin’ On A Pretty Daze che tanto aveva fatto spellare le mani a critica e fan di mezzo mondo. L’errore, a questo punto, sta nel chiedere una conferma di quell’eccellente lavoro, dato che la mole di materiale accumulato, non esattamente da buttar via, traccia già un eloquente identikit qualitativo del nostro.
b’lieve i’m going down… è, invece, un disco degno di massimo rispetto per le regole che si impone: nelle canzoni di Kurt Vile, al solito, non è che accada chissà cosa, ma quei pochi elementi, ottimamente giostrati in un lento ed inesorabile fluire che caratterizza tutto l’album, consentono all’ascoltatore di “scendere giù” assieme all’autore e di calarsi nel suo personale itinerario esistenziale, in cui disagio e un accennato spleen sono mixati con una buona dose di distacco che impedisce loro di scadere in un manierato maledettismo.
Lasciando da parte la componente più prettamente rock e abbracciando una dimensione più “cameristica”, Vile svuota ancor di più le sue canzoni per scegliere una struttura iterativa, quasi come se la forma canzone si abbandonasse e si accartocciasse su se stessa (vedi l’elettrica cullante da carillon in Wheelhouse) fino ad implodere, come dovrebbe suggerire anche il titolo. Se, infatti, l’incipit si distingue per piglio e brillantezza nell’eccitante progressione folk-hop di Pretty Pimpin e nelle evoluzioni di banjo di I’m An Outlaw, il viaggio poi si distende in placidi ma sinuosi fingerpicking, tuttora il territorio prediletto di Vile, che qui sfodera uno dei suoi pezzi più riusciti e seducenti di sempre: That’s Life, Tho (Almost Hate To Say), una ballata lisergica e notturna tra chitarra acustica e splendide aperture di organo, in cui Lou Reed va tranquillamente a braccetto con gli Stone Temple Pilots (!). Sulla stessa china si collocano la frusciantiana All In A Daze Work e l’avvolgente, drakeiana Stand Inside.
Negli scarni arrangiamenti – la produzione è solo in apparenza lo-fi, in realtà i suoni sono curatissimi – trova maggior spazio il pianoforte nei quadretti vaudevilliani di Life Like This e Lost My Head There, oggettivamente gli episodi più deboli, compensati, però, dalla digressione strumentale Bad Omens, dai lunghi delay elettrici, e dal finale di Wild Imagination, che dimostra come è possibile declinare al giorno d’oggi i Velvet Underground senza risultarne la parodia.
Kurt Vile, a dispetto dei detrattori, che talvolta hanno storto il naso davanti le esibizioni dal vivo, è decisamente uno degli autori più interessanti della sua generazione. Il suo songwriting, sempre di un certo livello, ha digerito e riassimilato decenni di storia del rock (Neil Young su tutti) ma ha trovato, ormai da tempo, una propria espressione oramai inconfondibile, nella quale gioca un ruolo determinante una formidabile vocalità dal caratteristico birignao (tipico dell’accento della sua città di origine), tra il narcolettico ed il sornione, che conquista all’istante anche in b’lieve i’m goin down…, disco forse non compiuto nell’insieme ma con squarci memorabili.