Nothing to prove / just a hellish rock’n’roll freak / you call your metal black? / it’s just spastic, lame and weak”
Darkthrone, Too Old, Too Cold
La parabola dei Darkthrone si sviluppa su di un piano cartesiano che ha in ascissa la fedeltà assoluta verso sé stessi, e in ordinata l’estraneità a qualunque compromesso con il mercato. Notoriamente, tale attitudine riottosa – esplicitata dal categorico rifiuto a suonare dal vivo – ha garantito ai nostri ben poche soddisfazioni in termini economici. Ad oggi Gylve Fenris Nagell (aka Fenriz, batteria/voce) e Ted Skjellum (aka Nocturno Culto, voce/chitarra/basso) tirano avanti grazie a stipendi modesti: il primo è impiegato alle poste, il secondo insegnante. La libertà artistica che deriva da tale condizione, tuttavia, ha permesso ai due di concentrarsi sul proprio percorso creativo con una dedizione al limite dell’autismo. È un fatto che i Darkthrone abbiano mantenuto negli anni standard qualitativi molto alti, non pubblicando mai un disco meno che decente e raggiungendo in certi frangenti vette di eccellenza assoluta. Non a caso Fenriz e Nocturno Culto sono i beniamini della critica, e godono del rispetto incondizionato di numerosi addetti ai lavori. Phil Anselmo dei Pantera, tanto per buttare lì un nome, non perde occasione per incensarli di fronte alle telecamere. A fronte di tali e tanti meriti, la pubblicazione di The Underground Resistance ci fornisce il pretesto per ripercorrere la vicenda della band che, più di ogni altra, ha influenzato il corso del moderno black metal.
I Darkthrone nascono nei sobborghi di Oslo per volontà di Nagell, intorno al 1986. Dopo quattro anni di assiduo networking all’interno del sottobosco metal Europeo, i nostri catturano l’attenzione della britannica Peaceville, che pubblica l’esordio Soulside Journey (1991). L’album – unico articolo trascurabile all’interno di un catalogo che annovera numerose perle – risente fortemente degli stilemi technical death metal, allora molto in voga. La scrittura non mostra ancora tratti originali ed è certo che, se avessero proseguito su questa strada, i nostri si sarebbero confusi nella miriade di gruppi death fioriti un po’ ovunque al principio dei ’90.
Fortunatamente il destino ha in serbo piani ben più ambiziosi per Fenriz e Culto che, quando Soulside Journey esce nei negozi, si trovano ad un passo dal ricevere l’illuminazione definitiva. I due hanno cominciato a frequentare assiduamente Helvete, negozio di dischi gestito da Øystein Aarseth, un ragazzo con appena qualche anno in più di loro che – sotto lo pseudonimo di Euronymous – calca i palchi come chitarrista e leader dei famigerati Mayhem.Benché abbiano pubblicato soltanto un EP (Deathcrush, del 1987) i Mayhem godono già di fama leggendaria nei circuiti underground. Non a caso, proprio intorno ad Helvete si riunirà l’intellighenzia della futura scena black Norvegese. Sotto la guida spirituale di Aarseth, Nagell e Skjellum prendono le distanze dal modello death/grind e da gruppi “commerciali” come Napalm Death, Sepultura o Deicide (liquidati da Euronymous come roba da skater”). La crew di Helvete preferisce volgere lo sguardo al passato, identificando in Venom, Hellhammer, Celtic Frost e Bathory i propri numi tutelari. Accomunati da un suono oscuro, punkeggiante, lo-fi e più o meno compromesso con il Demonio, tali artisti costituiranno le fondamenta su cui verrà eretta la fortezza del metallo nero. Fenriz e Culto mutueranno da Aarseth anche il singolare approccio alla chitarra. Utilizzando accordi aperti (in luogo dei tradizionali power chords) e grattugiando selvaggiamente le corde tramite pennate alternate (la cosiddetta “zanzara”, di Slayeriana memoria), i due eleveranno lo stile Mayhem a suprema forma d’arte. I riff lancinanti generati grazie all’uso di questa tecnica denotano un allontanamento dalla compattezza thrash metal, che cede il passo ad un’attitudine profondamente noise.
A Blaze in the Northern Sky – licenziato nuovamente per Peaceville nel 1992 – risente fortemente dei cambiamenti in corso, ed è invero una fiammata artica che prende tutti di sorpresa. Casa discografica in primis che, inizialmente, si rifiuta di distribuire l’album perché lo ritiene inadatto al pubblico death metal. Tali perplessità sono in parte giustificate, dato che l’opera rappresenta a tutti gli effetti il primo esempio consapevole di moderno black metal. Caratterizzate da una produzione volutamente approssimativa, le composizioni presentano una durata media piuttosto lunga ma rifuggono le complesse architetture del passato. Affidandosi ad un riffage primitivo che alterna accelerazioni selvagge a narcolettici break sludge, i nostri ricercano piuttosto un effetto da trance ipnotica. Anche la voce raggiunge l’emancipazione dal modello death, barattando il gutturale growling con una tecnica ribattezzata shrieking, che oscilla tra urla distorte e sussurri demoniaci. I testi – che già dai tempi di Soulside Journey tradivano la fascinazione del gruppo per le tematiche occulte – assumono un taglio violentemente anticristiano. A onor del vero va detto che la prospettiva di Fenriz e Nocturno Culto (come del resto quella di molti altri artisti black metal) sarà sempre caratterizzata da un certo grado di ambiguità, oscillando fra un ribellismo di stampo satanico (“Face of the goat in the mirror / eyes burn like October sunrise / witchcraft still breathes”) e l’orgogliosa riscoperta delle proprie radici pagane (“It took ten times a hundred years / before the king on the northern throne was brought tales of the crucified one / a thousand years have passed since then / years of lost pride and lust / we are a blaze in the northern sky / the next thousand years are ours”).
Blaze indica la via da seguire ai rampolli del black metal Norvegese, propagandando un sound arcano, misantropico e gelido che – fin dalla rigorosa copertina, giocata sui toni del bianco e del nero – si pone in antitesi rispetto alla musica estrema del periodo. Tale modello sarà replicato sui successivi Under a Funeral Moon (1993) e Transilvanian Hunger (1994), raggiungendo con quest’ultimo capitolo la perfezione formale. Tributo definitivo all’arte dei Bathory, Hunger è ancor più rigoroso dei predecessori. Scritto e registrato quasi esclusivamente da Fenriz nel suo studio casalingo, l’album rappresenta l’epitome del Pure Norwegian Black Metal: la produzione è talmente lo-fi da risultare ostile nei confronti dell’ascoltatore (la batteria, ad esempio, viene totalmente fagocitata dal deflagrare delle chitarre elettriche), l’onnipresente blast beat accentua la natura ipnotica delle composizioni, la voce di Nocturno Culto trasuda malvagità ad ogni fonema. L’abbandono quasi totale dell’Inglese a favore dell’idioma natio non fa che sottolineare come i nostri, in questa fase, perseguano ossessivamente l’isolamento. La rinnovata sensibilità melodica dei brani ed un paio di trovate ritmiche che non ti aspetteresti, tuttavia, rendono l’opera ben più godibile di quel che si potrebbe immaginare. Fanno fede in questo senso la title track, così come Skald Av Satans Sol ed En As I Dype Skogen. (continua nella pagina successiva)