È approdata al secondo weekend La Prima Estate 2023, con una giornata intensa e proteiforme, ricca di storie e suoni anche in contrasto tra di loro, segno di una vitalità che si spera abbia lunghissima vita, per qualità della proposta e anche per la scelta, azzeccatissima, di una location che mette insieme lo spazio di un grande city park, con tutte le possibilità del relax balneare.
Quattro gli show della serata, connessi da una dimensione avvolgente che ha comunicato a diversi livelli: strumentale, illuminotecnico, emotivo e sensoriale. C’è un dialogo non diretto, ma ideale nella vocazione diversamente strumentale dei Just Mustard è di DoMi & JD Beck. L’industrial-noise dei primi disegna paesaggi acquatici e virtualmente sospesi tra incubo e meraviglia, così come la colonna sonora del duo jazz-fusion emerge alla luce del sole con un gioco dialettico capace di mettere insieme più storie generazionali. E Chet Faker ha molto da condividere con quest’ultimi, ma anche con i primi per approccio intimo e una combinazione mai riconciliata tra le lusinghe del pop e l’impatto strumentale e visionario del groove. Il suo set, davvero travolgente, ha caratterizzato attraverso consolle e strumenti più tradizionali un vero e proprio flusso funk’n’club.
Forme antipodali che si verificano anche nel suono nell’approccio su palco degli alt-J, tra epica rock e introspezione, nella statificazione tra gli anni settanta e pattern ritmici più contemporanei, che fa parte dei suoni del loro ultimo lavoro.
Ma una qualsiasi giornata de La prima estate, comincia alcune ore prima delle 18:30, ora d’avvio dei concerti. Appassionati ed addetti ai lavori possono godersi uno degli incontri programmati nel corso della mattinata, mentre comincia a prender forma il villaggio allargato che include le attività parallele al Lido di Camaiore, tra sessioni di Yoga con Irene Traina, la scuola di Surf e le escursioni nell’entroterra.
Protagonista del talk del 23 giugno, prima dell’incontro con alcuni degli artisti che si esibiranno in serata, Fabio Zaffagnini, guarda caso ex geologo marino, adesso fondatore e CEO di Rockin’1000, progetto consolidatosi durante i momenti più difficili della pandemia, dove tutte le energie sono confluite verso il successo dell’intuizione iniziale. La più grande Rock Band del mondo costituita da 1000 musicisti che nel 2015 aveva suonato all’unisono Learn to Fly dei Foo Fighters, dopo i 58 milioni di visualizzazioni su Youtube, ha concluso il marzo del 2022 la campagna di equity crowdfunding sulla piattaforma Mamacrowd, per dare impulso ad una vera e propria startup che si è creata intorno al progetto. Questa community globale che ormai ha superato quasi i trentamila musicisti in tutto il mondo, consente a chi ne fa parte di suonare negli stadi, favorendo così oltre ai principali attori anche i promoter, secondo principi di inclusività e di crescita economica. I numerosi investitori che hanno preso parte alla fase di crowdsourcing, hanno consentito un potenziamento dell’app preposta alla selezione, oltre allo sviluppo e al coinvolgimento della community stessa, attraverso il perfezionamento dello show e di tutte le strategie di promozione e distribuzione dell’evento. I concerti per ora allestiti in Italia, contano numerose città e location non convenzionali, come l’aeroporto di Linate a Milano. Alla base c’è anche il progetto FA R Evolution di Orienta Capital Partners, che mette al centro innovazione, tecnologia, ecosostenibilità e transizione digitale. Dalla musica partono allora infiniti vettori, tra cui quello della bio-sostenibilità edilizia.
Il modello di reclutamento dei musicisti attiva anche un sistema di formazione funzionale all’evento, dove vengono preposte forme di e-learning che consentono ai partecipanti di provare e allinearsi con la setlist dei concerti. Ogni paese, con la propria cultura e anche le diverse modalità di ricezione, ha consentito a Rockin’1000 di attivare approcci e linguaggi in continua mutazione, e soprattutto di affinare in termini pratici l’idea di inclusività. Le potenzialità di un sistema di rectuiting innovativo, hanno consentito al modello di essere adottato da 18 comuni dell’Emilia Romagna, per la gestione e la distribuzione sul territorio di tutti quei volontari che hanno aiutato e stanno aiutando la regione a risollevarsi dal recente alluvione.
Il racconto di Zaffagnini, oltre che un modello economico capace di rileggere e rilanciare in forma sostenibile l’ecosistema dei grandi eventi in un momento complesso come quello post-pandemico, si lega perfettamente al concept de La Prima Estate, come evento inserito nel territorio attraverso lo scambio attivo tra musica internazionale, realtà locali, natura e città.
L’incontro con gli artisti, curato dai colleghi di SkyTg24, ha ospitato nello spazio allestito alla Santeria Belmare, Katie Ball e David Noonan, rispettivamente voce e prima chitarra dei Just Mustard, quintetto irlandese reduce dal successo di “Heart Under“, secondo lavoro sulla lunga distanza, pubblicato su Partisan Records. Dopo una serie di aperture illustri, tra cui quella per il recente concerto dei Depeche Mode al Malahide Castle di Dublino, la band torna in Italia a distanza di quattro anni, ma per la prima volta su un palco di dimensioni importanti. Dai tempi di “Wednesday“, primo lavoro pubblicato nel 2018 per la piccolissima Pizza Pizza records, hanno affinato un metodo di composizione che condivide molto con le attitudini della musica elettronica, nella possibilità di espanderne forma e confini proprio con la dimensione live. Il loro è un set di matrice e impostazione fortemente elettrica, legato in parte al noise degli anni novanta a cui aggiungono una propensione industrial e un’espansione del mondo sonoro che oscilla tra il clubbing più visionario e medidativo e un’originale versione elettrica dell’estetica trip-hop.
Sono loro che alle 18:30 in punta aprono le danze del grande palco collocato in cima al Parco Bussoladomani del Lido di Camaiore. L’assalto noise con cui aprono è quello di Seven, brano di transizione dal primo al secondo album, pubblicato solo su singolo e che mostra chiaramente la radicalizzazione del loro suono, che si lascia alle spalle le influenze britanniche dell’era Creation, spostando le tessiture verso territori industrial-noise molto marcati, tanto da creare un contrasto davvero suggestivo tra i soundscapes chitarristici e la voce trasognata di Katie Ball.
Il catalizzatore è quindi “Heart Under“, album tra i più celebrati del 2022, soprattutto fuori dai nostri confini e che in Irlanda ha conquistato il primo posto delle classifiche indipendenti per diverse settimane.
Il lascito della cultura post-punk è quello legato all’angoscia del presente che i nostri riescono ad intercettare trasformandone gli aspetti estetici e performativi in un’abbacinante avventura psichica e interiore. Ieratici e immobili sul palco, attivano reminiscenze che fanno parte dell’immaginario Factory e delle posture shoegaze, trasposte entro una cornice più confidenziale e diretta. La luce del contesto per un set della durata di circa 45 minuti, li ha colti in pieno giorno, senza poter sfruttare quell’oscurità amniotica che in altre venue è un tratto distintivo dei loro live, insieme ad una serie di lievi strisce luminose che immergono le loro figure in un’illuminotecnica acquatica e azzurrognola. Ma l’energia oscura e rumorosa che riescono a generare era tutta li, solida come una parete sonora, cangiante per quantità di sfumature e livelli che consentono di entrare in un mondo avvolgente e a tratti spaventoso. Tra i clangori metallici e il grido di creature post-umane, il suono dei Just Mustard suggerisce varie forme di inabissamento. La confidenza che dimostrano con un palco di grandi dimensioni è sorprendente per una band al secondo album. Formano uno spazio alternativo con l’architettura sonica costruita da David Noonan, Rob Clark e Mete Kalyon, mentre la voce di Katie Ball sembra fluttuare come corpo acquatico in una wasteland di relitti.
Quasi avessero appreso e risemantizzato la lezione di Metal Machine Music, l’album meno ascoltato e ascoltabile di Lou Reed, investono il pubblico con un impatto sonoro violentissimo, capace di catturare l’anima e abbracciarla in uno spettro di emozioni mutevoli, dal terrore alla meraviglia.
Osservata con attenzione dalle prime file del Parco Bussoladomani, la tecnica strumentale dei Just Mustard ha una qualità empirica emozionante, che fa da contrappunto all’apparente ieraticità dei corpi.
Ciò che è accaduto in studio per altre vie, qui si scatena nell’impiego non convenzionale ed eminentemente fisico degli strumenti. Una vera e propria bestia sonora che disorienta e spiazza, per consentire l’ingresso negli incubi di Katie, la cui voce è forse l’esperienza più vicina a quella di uno strumento per attitudine, scelte fonetiche e risonanze. La fissità sul palco corrisponde allora ad un vero e proprio stato di trance, lo stesso indotto da certa drone music, dove gli elementi antitetici di rumore e sogno, levità e violenza, si aprono con la forza di un rituale. Occorre allora abbandonarsi a questa esperienza dei sensi, anche quelli che non riconosciamo più. La setlist privilegia i brani di “Heart Under”, ma recupera gli episodi di passaggio da “Wednesday” all’ultimo lavoro, tra cui la bellissima “Frank”, nenia onirica circolare pubblicata solo su singolo, che in questo contesto viene trainata da una straordinaria onda elettrica.
Un discreto salto e forse anche un risveglio quello che sancisce il passaggio dai suoni oscuri degli irlandesi, alla solarità giocosa di Domi e JD Beck. In fondo sono due proposte eminentemente strumentali, la prima per spirito, la seconda per precisa impostazione. Scoperti e prodotti da Anderson .Paak e per certi versi vicini al suo mondo sonoro, di cui offrono una versione più essenziale e fisica, hanno pubblicato il loro primo e unico album intitolato “No tight” sulla prestigiosa Blue Note, mettendo insieme ospiti di grande rilievo, tra i quali spicca il nome di Herbie Hancock.
Arrivati sul palco alle 19:45, hanno proposto una setlist aderente a quella dell’album.
DoMi controlla tastiere, mentre JD, posto di fronte, è immerso nel suo drumming frenetico e spezzato. Un setting ormai consueto e che nei grandi palchi come il Coachella e questo del Parco Bussoladomani, ha abbandonato l’approccio provocatorio dei piccoli club, dove DoMi, vestita con tuta confortevole da dopolavoro, sedeva comodamente sulla tazza di un cesso, accessoriato con relativo supporto per carta igienica.
Colori e spirito che suggeriscono un approccio giocoso alla materia, ma che non dimentica una ferrea disciplina, se consideriamo lo spartito ben visibile sul leggio della musicista francese, allora come adesso.
Apparentemente più formali e inscritti nello scenario, conservano l’outfit di una gioventù pop e contaminata, per trasporre sul piano musicale, lo stesso approccio. Lui vestito come un blue collar, lei con giacchina sportiva da ciclista, calzoncini cortissimi e calzette nere con fiocco bianco. Dei finti bonsai che sprigionano fiori di pesco rosa shocking circondano la batteria di JD e il roland stage 4 di Domi.
Dal vivo, la jazz-fusion atipica del duo, acquista calore e ridefinisce attraverso lo spirito della jam, tutti quegli elementi apolidi che caratterizzano la loro scrittura, dalle suggestioni di certa jungle, al campionario di riferimenti radicati nel simulacro degli anni settanta. Per quanto il groove sia una dimensione fondamentale del loro suono, l’eclettismo virtuosistico della costruzione armonica, su disco conduce verso spazi più meditativi, mentre dal vivo acqusisce fisicità e urgenza davvero coinvolgenti. In questo senso è interessante assistere all’ipnosi che un grande pubblico come quello de La Prima Estate è disposto ad accogliere, dimostrando una partecipata attenzione nei passaggi più astratti. Un’ora di live passa velocissima nel dialogo tra questi due straordinari musicisti, dove il gioco fa da padrone nelle loro interazioni. “Odio parlare” dice Domi a un certo punto, per continuare con una schermaglia insieme al compare, che sancisce la forma diversamente intima di tutto il set. JD per tutto il live si prenderà gioco del pubblico, annunciando per cinque volte l’ultima canzone del concerto. I due pezzi cantati sono una breve incursione in un mondo strumentale dove i florilegi della musica si rivolgono verso l’esterno, per libertà e invenzione, come nel pezzo di Jaco Pastorius con cui hanno chiuso il loro set.
Scoccano le 21, minuto più minuto meno, quando Nicolas James Murphy, meglio conosciuto con il nome d’arte di Chet Faker, sale sul palco de La Prima Estate. Con se porta un approccio confidenziale non dissimile dagli ospiti precedenti e dedica un terzo del concerto ai brani dell’ultimo album pubblicato due anni fa in piena pandemia. Scava nel passato e propone anche una cover davvero notevole di “No Diggity” dei Blackstreet. Ma sono i visuals oscuri proiettati su grande schermo che introducono una notte trascorsa all’Hotel Surrender. Una dimensione apparentemente minacciosa, che vive nel simulacro di un interferenza elettrostatica, dove l’immagine d Nicholas e i visuals, sembrano una via di mezzo tra elaborazioni frattali e un segnale trasmesso da un altro spazio tempo. La distanza dell’immagine, viene nettamente disattesa dalle vibrazioni dance delle tastiere, un’attitudine clubbing che inonda il parterre senza alcuna mediazione. Il set, suonato tutto da solo in controtendenza ai concerti più recenti gestiti in trio, è un concentrato ipnotico tra groove e melodia, che su palco privilegia l’impatto dei bpm combinandolo con una dimensione soulful davvero sorprendente per capacità comunicativa e coinvolgimento. Come scrivevamo, l’artista canadese crea un vero e proprio funk’n’club, cavalcando la spiritualità laica della musica soul, in quel territorio d’ibridazione che è il Djing, qui praticato attraverso una prospettiva diretta e di commovente onestà.
A qualche mese di distanza dai festeggiamenti per il decennale del loro primo album che ha registrato il tutto esaurito in numerose venue internazionali, il trio di Leeds alt-J occupa il palco de La Prima Estate a partire dalle 22:30, davanti ad un affollatissimo Parco Bussoladomani.
La voce e la chitarra di Joe Newman sono accompagnate dalla batteria di Thom Sonny Green e dalle tastiere di Gus Unger-Hamilton. Tutt’intorno una spettacolo illuminotecnico di notevole impatto che riprende la geometrizzazione dei visual. Per concept e fluidità promana dai suoni stessi. Un’energia che punta alla tangibilità, nonostante la fissità esecutiva.
Al centro, ma non in modo esclusivo, le tracce di The Dream, quarto album pubblicato dalla band, quello che più dei precedenti, attiva un dialogo simmetrico tra gli anni settanta e le sollecitazioni del loro sound.
Sviluppato nell’alternanza ricercata tra tutti e quattro i capitoli della loro discografia, lo show restituisce grande omogeneità per scelte sonore e impatto.
La doppia anima di The Dream, sospeso com’è a livello di produzione sonora tra introspezione e incursioni di matrice elettronica, house e funk, viene allora potenziata su palco, tanto da trasformare tutti gli aspetti più crepuscolari dell’album in un crescendo emotivo di forte presa sul pubblico che culmina con l’esecuzione di Matilda, uno dei classici della band tratto dal loro primo lavoro.
Quel debutto, come dicevamo già festeggiato durante gli show di marzo, viene omaggiato a dovere anche durante la serata versiliese, con una serie di incursioni che determinano comunque l’andamento del concerto. Un dialogo, tra il primo e l’ultimo capitolo della loro carriera, che stabilisce un collante perfetto per i fan, sul piano dell’intensità intensità visuale e sonora.