La cifra espressiva di questo Lampi per Macachi, il tributo di Giovanni Succi al maestro Paolo Conte, può essere facilmente compresa immaginando l’opera come un dialogo itinerante fra due gentiluomini piemontesi, una passeggiata che – ci piace pensare – ripercorre la statale 456 tra Asti e Nizza Monferrato. Se anche solo una volta ci si è trovati a calpestare quelle terre, ad annusare il profumo di quei vigneti, ad assaggiare il sapore di quei vini, il mix di eleganza ed imperturbabilità che contraddistingue tanto lo stile di Conte quanto quello di Succi risulterà un elemento familiare, nonché la naturale conseguenza di determinati influssi territoriali.
Se si accetta dunque che le radici rivestano un ruolo fondamentale nel processo di creazione artistica, l’ipotesi di un Succi sempre più granitico che omaggia l’istrionico Conte non sembrerà più così incongruente. Sarà sufficiente sostituire la chitarra al pianoforte e tagliar fuori il jazz per ottenere una raccolta di canzoni del tutto credibile e – quel che più conta – assolutamente personale. È pur vero che Succi smorza in parte l’estro Contiano, incanalando le melodie verso tonalità più scure e rallentando le cadenze, ma non per questo si discosta in maniera eccessiva o irrispettosa dall’opera dell’avvocato piemontese. O, perlomeno, questa è l’impressione che suscita l’ascolto della prima parte del disco.
Il lato A di Lampi per Macachi – quello che si concentra sulla reinterpretazione dei brani più “morbidi”- scorre infatti senza traumi eccessivi, alternando trip hop amniotico (Gelato al Limon, La Fisarmonica di Stradella) a ballate elettro-acustiche (Uomo Camion, Come Mi Vuoi). Ma, a cominciare dalla sua versione di Diavolo Rosso, Succi lascia deflagrare l’hard rock luciferino e catacombale che gli scorre nelle vene, ribaltando la situazione con un’attitudine al limite dell’eresia. Il ritmo indiavolato che contraddistingue il brano originale cede il passo ad un ossessivo fraseggio blues che ricorda da vicino Dragamine (da Quarzo), permettendo al nostro di tornare a muoversi in territori familiari, non distanti da quelli bazzicati con Bruno Dorella nei Bachi da Pietra: è a partire da questo momento che la personalità dell’interprete riesce ad imporsi su quella dell’autore, fin quasi ad oscurarlo.
L’incantatrice assume così i contorni di un noir/western narcolettico, laddove Bartali restituisce al pianoforte – unico caso in tutto il disco – il ruolo di strumento principe; ma, più che allo swing Contiano, le note riverberate di Succi rimandano alla musica per aeroporti di Eno. In Questa Sporca Vita emerge un piglio da balera sguaiato e scomposto che chiama in causa Tom Waits, altra dichiarata influenza del musicista nicese, mentre su Via Con Me – brano a cui è affidata la lapidaria chiusura dell’album – Succi raggiunge apparentemente l’apice della hýbris: brutalizzando il classico di Conte per eccellenza, fino a ridurlo ad una scheggia noise che non raggiunge il minuto di durata, il nostro sembra quasi mancare di rispetto all’autore astigiano. A ben guardare, tuttavia, ci pare più plausibile che Succi abbia voluto sbeffeggiare l’immagine “da cartolina” di Conte, quella giunta al grande pubblico attraverso caroselli e spot pubblicitari. Un gesto che, in definitiva, possiamo considerare come il più grande atto di devozione possibile. Chapeu.