Quando nel 2016 intervistai il grande Steven Lippman sulla sua collaborazione con David Bowie per il misterioso Reality Film, Indie-eye aveva già trasformato da alcuni anni la linea redazionale del portale musica, nella prima testata giornalistica italiana dedicata ai video musicali dalla parte di chi li realizza. Lippman rappresentava l’intersezione perfetta per una testata scissa in due portali, uno dedicato al Cinema e l’altro ai Videoclip. Artista eccentrico, tra i pochi a girare ancora in pellicola e con il Super16mm, supporto privilegiato dal Cinema sperimentale tra gli anni sessanta e i settanta, dimostrava una volta di più la natura combinatoria del videoclip, forzandone la cornice.
Nel lavoro di ricerca costante, frequente e quotidiano che la testata porta avanti dal 2005, ci piace coinvolgere artisti che arrivano al videoclip attraverso altre strade. Lo scrivevo chiaramente nel catalogo dell’edizione 2019 di “Asolo Art Film Festival“, l’ottimo evento diretto da Cosimo Terlizzi, per il quale curo la sezione dedicata ai video musicali internazionali: “la cornice degli ambienti visuali cannibalizzati dal videoclip è in costante comunicazione con altri mondi, aspetto che è radicato anche nei continui rimandi tra cultura pop e i linguaggi delle avanguardie, ma che dopo la “specializzazione” e i “grandi autori” degli anni ’90, ha assunto un andamento “non lineare” fatto certamente di incorporazioni e sovrapposizioni che nell’ambito dei nuovi media hanno favorito un avvitamento spesso indistinguibile tra memoria storica e nuovi sconfinamenti”.
Lucia Fiorani, giovane artista bolognese sospesa tra architettura e arte, specializzatasi tra Bolzano, Oslo e Firenze, fa parte di quella classe di creativi che nella contaminazione di materiali e forme cerca un elemento d’espressione sincretica.
Di recente ha realizzato un videoclip per i conterranei LaPara, il progetto di Rebecca Paraciani che nei primi mesi del 2021 uscirà con un primo EP intitolato “Tutti gli animali del mondo“.
Per l’iper-realtà in stato di sogno che le liriche de “Plastica” suggeriscono, Lucia Fiorani è uscita dal recinto dell’illustrazione e ha in qualche modo condotto la prassi dell’artwork in un territorio dinamico, espandendone le possibilità.
Il risultato è un video ibrido e affascinante, riguardo al quale abbiamo chiesto alcune cose direttamente all’autrice
Ciao Lucia, benvenuta su indie-eye e complimenti per il video.
Ciao Michele, grazie dell’invito. Sono contenta che il video ti sia piaciuto
Prima di approfondire il tuo lavoro realizzato con Rebecca Paraciani, vorrei ci riassumessi, per quanto possibile, la tua formazione come artista fino all’approdo al videoclip. Il tuo è un lavoro che ha a che fare con il design, l’architettura, il riuso degli oggetti e la ricerca di intersezioni possibili tra spazio pubblico e ambiente.
In una maniera elegante si definirebbe “formazione mista”, ho studiato prima design, poi arte per lo spazio pubblico, ora Cinema. In realtà, ho sempre giocato con forme ibride di comunicazione. Ho iniziato a sperimentare facendo film in analogico e video in digitale negli anni in cui ho vissuto a Oslo e Berlino, dove in effetti il mio lavoro artistico si è concentrato molto sull’indagare e “smaterializzare” la concezione di territorio, di casa, di appartenenza ad un luogo.
Nei tuoi lavori, la decontestualizzazione e la derealizzazione degli oggetti sembra una costante, al di là che tu scelga il video, l’illustrazione, la realizzazione di artwork oppure la dimensione più performativa.
È vero. Sono sicura che da qualche parte esista “un paradiso di prati infiniti per tutte le erbe solitarie”, come diceva Ettore Sottsass, e sono ossessionata dall’idea di trovarlo. Questo per dire che mi piace guardare oltre la solitudine delle cose. Quindi spesso questa dematerializzazione serve poi a mettere in relazione tra loro le cose che isolo dal loro contesto, per sovvertire o reinterpretare le narrative nelle quali si trovano immerse nella realtà di tutti i giorni.
Il video di “Plastica” combina alcuni elementi del tuo mondo creativo privilegiando l’animazione come tecnica, ma conservando la raccolta eterogenea di materiali. Puoi entrare nello specifico e raccontarci scelte, tecniche, oggetti e materiali utilizzati?
Per me è stato il primo vero lavoro di animazione. Ho fatto alcune prove, in passato, ma in questo caso ho davvero mosso i primi passi verso un progetto autoriale, disegnando tutto a mano, colorando in digitale e mettendo in sequenza con i programmi di montaggio. Ho deciso di fare un piccolo tributo al cinema delle origini, quando scoprivamo la meraviglia dell’immagine in movimento. Ad esempio, avevo in mente lo Zootropio (n.d.a. uno dei dispositivi più noti tra quelli del pre-cinema, che perfezionava alcuni esperimenti precedenti, nella creazione illusoria del movimento) oppure i primi esperimenti con fotografie messe in sequenza da Eadweard Muybridge (n.d.a. tra i primi sperimentatori nell’impiego della cronofotografia per lo studio del movimento su animali ed esseri umani). Per le foto in bianco e nero che vedete nel video, infatti, ho usato una macchina analogica, sviluppando io stessa i rullini, negli studi di CA.OS Camera Oscura di Modena, che ringrazio.
Come hai discusso e lavorato al video di Plastica, insieme a Rebecca Paraciani. Si è affidata completamente al tuo intuito oppure avete stabilito alcuni parametri comuni?
All’inizio abbiamo fatto un gioco di associazione di idee, immagini e sensazioni, dalle quali ho tratto i primi schizzi. Poi ho lavorato libera per un po’ e ci siamo risentite per cose anche molto concrete come la palette dei colori o i titoli di testa e coda.
Mi sembra di poter dire che il video di “Plastica” sia un lavoro fatto di innesti e sovrapposizioni incongrue, come quelle che si sperimentano nello spazio urbano, ricco di stratificazioni. Cosa ne pensi, e soprattutto, da quali motivi, texture e immaginario ti sei fatta prendere nella creazione di questo metissage?
La prima ispirazione è stato l’immaginario bellissimo e già molto ricco dei testi e della musica dei LaPara. Poi ho cercato nell’onirico, in quei sogni che finiscono un po’ in niente, in cui ti sembra di parlare ma non riesci, o cammini con gambe pesantissime e non arrivi da nessuna parte. Più che lo spazio urbano, in questo caso, è stato quello della provincia, della periferia a contatto tra paese e campagna a fare da sfondo alle immagini. E non pensate che lì le stratificazioni siano meno complesse!
Il girare a vuoto di Rebecca, nelle liriche e per come l’hai moltiplicata nel video, mi sembra che ruoti intorno ad una strana elegia urbana. Il mare ormai è un organismo invaso dai rifiuti e dalle scorie della città; nonostante questo mi sembra tu cerchi la bellezza anche all’interno degli spazi compromessi; è così?
Sí. Da un certo punto di vista è come fare amicizia con la fine del mondo. Che poi, il mondo finisce sempre, le cose mutano in continuazione, spesso è responsabilità nostra. Ovviamente è orribile, quindi cerco di non distogliere lo sguardo, di osservare bene questo costante finire e di ascoltare la storia che racconta, seguendo le tracce di attività umana e animale, universale, che si è accumulata e stratificata nelle cose.
Mi sembra ci siano alcuni elementi di arte tribale e africana nella scelta dei pattern visivi e anche in quella cromatica. È così?
No, almeno non razionalmente. Comunque, tutte le esperienze e cose studiate in passato, in qualche modo, convergono nei lavori che facciamo. Quindi può essere!
Cosa ti interessa della forma del videoclip. Da queste parti la definiamo spesso “uno spazio di convergenza”, perché all’interno confluiscono molti elementi, più di quanto non accadesse durante gli anni ottanta. Per te cos’è?
Un parco giochi! Sul serio, il videoclip è storicamente un grande spazio di sperimentazione da parte della video arte, e mi sento fortunata a poterlo usare anche io da artista. Guardate all’indietro, al video di Mongoloid dei Devo, girato da Bruce Conner, alle installazioni visive che faceva la famiglia Boyle per i Soft Machine, ma anche ai molti video di Björk fatti da Michel Gondry o Chris Cunningham. Il videoclip è un’opportunità meravigliosa per mettersi alla prova.
Ne stai preparando altri e più in generale a cosa stai lavorando?
Sto preparando un altro videoclip, sì, e nel frattempo sto lavorando a un lungometraggio tra cinema documentario e sperimentale, nel quale racconto una storia molto intima. Sto pensando di farlo sempre ibridando le riprese con stralci di animazione, filmati d’archivio e fotografie.