Ritornano quei pazzi della Skank Bloc Records, ovvero Lapo Boschi e le sue molteplici reinvenzioni. Dopo I Professionisti e Le Cose Furiose, la nuova band dell’etichetta luganese si chiama Ludwig Van Bologna (notare la voluta somiglianza con i Camper Van Beethoven, e la totale assenza di legami musicali con il gruppo californiano). L’arte della fuga si propone come ancora una creatura di Boschi, un nuovo tributo alle sonorità anni ’60 del beat italiano e britannico, un metafisico pastiche di moderno e modernariato imperniato sulle chitarre. Ascoltando l’apripista Gino Paoli si sente già come l’autore Lapo si confronta con il personaggio Lapo Boschi, chiedendosi cosa succederebbe se fosse l’attuale presidente della SIAE (in un impeto alla Cecco Angelieri). Persiste la contrapposizione tra autore e personaggio, in una separazione dei ruoli che può nascere sia riflettendo sul proprio naso come il pirandelliano Vitangelo Moscarda, sia pensando al perché andare in spiaggia quando si odia l’atmosfera balneare (Idea Balorda). Il tema da spy-story alternato alla cantilena ipotizza la schizofrenia momentanea che tocca all’uomo del XXI secolo. Con La tosse, un surf tarantiniano, lo sguardo si volge verso gli altri: se siamo tutti uguali, nati dal solito Dio o dalla solita scimmia, perché solo io sono afflitto da questa tosse? Rivolgendosi alle immateriali parole e alle materiali cose, nessuno può trarre sollievo: “le parole non mi stanno ad ascoltare / son fatte di uno strano materiale / ti sfuggono se le provi ad afferrare”. Le parole e le cose si inerpica su ritmiche danzereccie senza trovare la via di fuga. Cosa rimane? Niente, una ripetizione di vuoto, un manuale ancora bianco su cui scrivere le regole dell’arte della fuga. Magari a San Francisco, sola andata, ritornando sulla scia delle Cose Furiose, con un compagno di viaggio di alta caratura come Luciano Chessa. Meglio sicuramente di quella tonnellata di persone che Boschi conosce e che sanno provocare solo ferite d’amore (Signori e signore). Non resta che chiudere con Axolotl, una delusa ammonizione verso la realtà, quasi un’autocritica verso il disco stesso e l’avventura musicale raggiunta finora. L’arte della fuga dal reale parte da un pianoforte, base della canzone di chiusura, nato nei primi anni del ‘900, proprio quando i maggiori autori mondiali si domandavano quali danni provocava la modernità. Il capitolo più drammatico si chiude con un dubbio, il guascone Boschi ha scavalcato i confini della narrazione per entrare nella labile soglia psicologica degli interrogativi dell’umanità. Le conclusioni le può trovare solo Boschi, assentandosi da sé come Mattia Pascal, vittorioso come Vitangelo Moscarda o giosamente perdente come il protagonista de “Un uomo che dorme” di Georges Perec.