Manica, cantautore ferrarese trapiantato a Bologna, dopo l’ep d’esordio intitolato “La faccia degli dei”, accolto con favore dalla stampa specializzata, torna con un nuovo brano intitolato “Stella Danzante”, occasione per un videoclip di durata estesa (11 minuti) diretto dai talentuosi Vincenzo Basso e Luca Lazzaruolo.
Indie-eye lo presenta in esclusiva, con un’intervista ai due autori per comprendere da vicino le scelte e le intuizioni alla base di questa long form atipica e suggestiva, tra video arte e science-fiction.
Manica – Stella Danzante, il video ufficiale diretto da Vincenzo Basso e Luca Lazzaruolo
Vincenzo Basso e Luca Lazzaruolo, l’intervista
Come siete arrivati a collaborare insieme?
Ci siamo conosciuti diversi anni fa. Ci trovammo a “suonare” in un gruppo impro-noise, dal nome PolloCaneCanePolloiiihPolloPollo. Quel gruppo è durato il tempo di una prova in sala, 3 ore scarse. Da allora però abbiamo iniziato a trovarci nella stessa comitiva e passato sempre più tempo assieme, anche a causa del fatto che molti dei nostri gusti coincidessero. Abbiamo già condiviso altri lavori, e ci siamo trovati bene a lavorare insieme. Siccome la cosa pareva funzionare, quando ci è possibile tendiamo a lavorare assieme.
Per la regia e la realizzazione del video come avete integrato le vostre diverse esperienze? Vi faccio questa domanda perché sembra vi siano due anime, quella legata alla ricerca fotografica di Luca e quella vicina alle competenze di Vincenzo in ambito di video arte.
V: Credo che Luca sia d’accordo nel dire che il lavoro è interamente condiviso. È probabile che in fase di ideazione e scrittura io tenda a prendere la mano, e che lui faccia lo stesso in fase di postproduzione ed effettistica, ma sono differenze in realtà davvero insignificanti, che derivano soltanto da una maggiore rapidità di esecuzione da parte dell’uno o dell’altro, o da una metodicità più efficiente. Infatti, ogni minima scelta è condivisa da entrambi, dal generale dell’impostazione complessiva al particolare della durata di un singolo taglio. Durante le riprese soprattutto siamo abbastanza monolitici e ci muoviamo all’unisono.
Può capitare che Luca sia in macchina e io a dirigere gli attori o il contrario, ma ci scambiamo in continuazione i ruoli.
L: Io, a differenza di Vincenzo, non mi sono occupato da sempre di cinema e il mio percorso di studi è stato differente ed alquanto incasinato. Per farla breve, sono uno di quegli architetti che hanno deciso che non avrebbero mai posato pietra in vita loro, anche se sono estremamente interessato alla forma, alla materia e allo spazio. Di pari passo sono sempre stato un grande appassionato di fotografia, musica e cinema. Studi in merito li ho fatti e continuo a farli da me, leggendo libri, ascoltando e vedendo di tutto.
Così ho deciso che se volevo davvero occuparmi di questo dovevo iniziare dalle basi ed ho approfondito le tecniche, fatto nottate per capire come funzionassero gli strumenti, quali mi servissero e soprattutto speso diottrie davanti ai programmi di montaggio e fotoritocco. Ho persino seguito un Corso di Fotografia a Salerno alla fine del quale mi è stato conferito un premio, e ciò mi ha aiutato ad affinare alcuni aspetti tecnici e teorici. Fra i due si potrebbe dire che io sono quello più smanettone, mentre Vincenzo ha più di me una preparazione teorica e storica. Ad ogni modo lavoriamo in sincrono e questo vale anche per quanto riguarda il video dei Manica. Siamo insomma una troupe di due persone: le scelte sono sempre ragionate assieme e spesso ci troviamo a dire la stessa cosa. Figurati che una volta finimmo per scrivere due scene, ognuna relativa ad un film differente, ma in entrambe accadevano praticamente le stesse cose. Il fatto però è che nessuno dei due aveva informazioni relative al film dell’altro. Quando notammo questa cosa rabbrividimmo. Tutto ciò per dire che nonostante le differenze di formazione, in realtà non c’è stato un reale “bisogno” di integrazione. In fondo volevamo fare entrambi la stessa cosa.
Da dove parte e come si è sviluppata l’idea di Stella Danzante?
V: I Manica ci avevano chiesto di realizzare un live del loro brano, da girare in un locale di amici. Quando ho chiesto delle immagini del locale ai ragazzi, ne ho ricevuta una con quella parete di televisioni. Abbiamo immediatamente pensato che fosse criminale non utilizzarla.
L: I Manica volevano un fake-live del pezzo, girato su di un palco, ma quell’idea è stata subito abbandonata. Forse all’inizio il lavoro era più articolato di come poi in realtà è divenuto. Avevamo ipotizzato più versioni e a dire il vero non ne ho limpidi ricordi, ma c’erano più percorsi, più televisioni, una meccanica più articolata. Abbiamo dovuto snellire il tutto perché ci siamo fatti prendere un po’ la mano. Ma l’idea di fondo, quella non è mai cambiata, doveva essere un percorso costellato di continui fallimenti. Tematica fra l’altro, quella del fallimento, che mi sta molto a cuore
Nel video si respira un’aria molto diversa da quella che correntemente si vede in circolazione. Parto da una prima suggestione, ovvero il setting che si avvicina a quello di una video installazione, con il wall degli schermi che sembra replicare una delle sculture catodiche di Nam June Paik; come mai questa scelta?
V: Nam June Paik è stato oggettivamente un grande, ma personalmente non l’ho mai amato granché. Per me la suggestione più importante proviene dall’idea che mi ossessiona di poter disporre di uno spazio potenzialmente infinito, fatto ad alveoli, a nicchie, a quadri, a livelli, a strati. Lo spazio ideale, per me, è l’alveare o la tana di talpa. O quello che si vede nei quadri di Teniers David o di altri fiamminghi. O ancora, quello della piramide dei compossibili di cui parla Leibniz.
L: Probabilmente sì, credo che l’aria che si respira sia dovuta al fatto che abbiamo avuto la fortuna di lavorare con un gruppo come i Manica che si sono fidati di ciò che volevamo proporre. Soprattutto perché potrebbe sembrare incoerente dal punto di vista dello stile, visto che dall’inizio alla fine la fotografia passa dall’essere dominata da colori carichi ad assumere una sorta di aura post-moderna nel finale. In realtà questi cambi sono dovuti ad un fattore relativo all’indipendenza degli spazi. L’erotomane è in una stanza non precisamente collocata all’interno della storia, così come tutti gli ambienti nelle televisioni. Sono luoghi indipendenti ma con sottilissime connessioni fra loro. Detto ciò, il nostro lavoro può ricordare nella forma l’Internet Dream o le Tredici Distorsioni per Televisioni Elettroniche di Paik, ma varia per contenuti ed impostazione generale, poiché ogni televisore è spazio a sé. Sono cioè non distorsioni di forme (esclusi forse i contributi dei frammenti a loop) ma luoghi aperti su altri luoghi. In pratica il nostro astronomo è costretto ad attraversare svariate eterotopie collegate da una invisibile (per lui) mappa di collegamento. Questo tipo di narrazione ha richiesto quindi una differenziazione dei luoghi anche dal punto di vista dell’illuminazione e del colore, e di conseguenza l’impatto è inquietante.
Rispetto ai videoclip convenzionali, sembra che il rapporto tra immagine, suono e parola, qui sia ricercato attraverso una rigorosa mappatura di segni, è così?
V: È curioso che tu parli di “mappatura rigorosa dei segni”, perché rivedendo il video pensavo che fosse il caso di spingere un po’ più in là questa problematica. Semiotica e cartografia sono due delle materie che più mi affascinano. Gran parte delle cose che scrivo, le mie piccole sceneggiature o le mie bozze di ricerca, ruotano intorno a queste due questioni (e a questioni politiche e relative al principio di individuazione). Ma per me la bellezza di queste discipline sta nella loro congenita
predisposizione al fallimento, dato che cercano di sistematizzare e saldare dei rapporti binari tra parole e cose, tra linguaggio e fenomeni, tra nomi e luoghi. Ma la creazione di un rapporto ordinato di questo genere presuppone sempre l’esistenza di una linea gerarchica o di potere, che organizza parlanti e parlati e, di conseguenza, ricompone l’universo dei segni e della loro modulazione. I rapporti non sono necessariamente binari, anzi non lo sono per nulla. Nel caso di Stella Danzante, ad esempio, i personaggi continuano a parlare e il loro labiale e i loro gesti sembrano inequivocabili. Perché raddoppiare tutto con dei sottotitoli, allora? È un metodo: mostrare un personaggio che scrive qualcosa, sentire la sua voce mentre scrive, e vederlo agire all’interno del racconto che sta scrivendo. Credo che sia un’invenzione bressoniana: la voce off dice qualcosa come “la guardai e le chiesi che ora fosse”, e intanto vediamo il personaggio guardare la ragazza e chiederle “che ore sono?”. Tutto si ripete, la stessa cosa la si vede, la si sente, la si legge… Ma quello che è fondamentale è capire cosa cambia da una ripetizione a un’altra: davvero permane tutto inalterato? I segni visivi, linguistici, uditivi restano in ogni caso gli stessi? Ci sono dei di più, dei di meno? Da questo punto di vista la mappa dei segni è come annullata: il rapporto tra ciò che si sente, ciò che si vede e ciò che si dice è di 1:1. È come la carta del mondo in scala reale di cui parla Lewis Carroll, che finisce col sotterrare tutto. E bisogna che una mappa sia molto precisa e rigorosa per annientare ciò che descrive.
L: Personalmente cerco di inserire sempre elementi di crittografia, forme da scomporre, piccoli punti interrogativi insomma. È una delle cose su cui sono estremamente fissato. Devi capirmi, sono nato e cresciuto in una casa dove si mangia pane e delitti, dato che mia madre è una grande appassionata di gialli e noir, quindi il fatto che ci siano dei quesiti anche solo minimamente accennati, lo trovo una cosa quasi necessaria. È il caso ad esempio del messaggio che compare in codice Morse. Sono stato poi influenzato tantissimo dallo studio di Leon Battista Alberti che ha praticamente inventato il primo cifrario polialfabetico medioevale. Insomma, il fatto che citi l’Alberti per la cosa più lontana dall’architettura che lui abbia mai fatto, la dice lunga sul mio conto.
I Manica vi hanno lasciato completa libertà interpretativa o avete discusso con loro il progetto?
V: I Manica, più che lasciarci libertà interpretativa, hanno letteralmente sciolto i guinzagli. A noi ha colpito molto il fatto che ci abbiano permesso perfino di inserire droni e dissonanze nel prologo e nella conclusione del video, così distanti dalla loro estetica, senza battere ciglio. Non smettiamo di ringraziarli per questo.
L: Abbiamo discusso fino ad un certo grado di approfondimento dell’idea che avevamo, dopodiché, ad un certo punto, ci hanno lasciato carta bianca. Questo ci ha permesso di spingerci dove volevamo ed abbiamo potuto sperimentare liberamente sotto diversi fronti.
La durata estesa del videoclip lo traghetta per forza fuori dai margini stessi della forma corrente. Nella storia del video musicale sono numerosissimi i tentativi che combinano altre forme di narrazione con quella più canonica dell’immagine per la musica sviluppata a scopi promozionali. Quale era il vostro obiettivo?
V: L’obiettivo era di racconto, di atmosfera, di concetto, di immagine, non di forma. Da questo punto di vista siamo commercialmente dei totali sprovveduti.
L: Volevamo narrare la storia di un uomo che va sulla luna a trovare un suo amico, ma il problema era capire come vi arrivasse. È stato necessario fare un lungo lavoro di scomposizione del brano e di continua interrogazione di esso. Per spiegarmi meglio provo a farti un esempio. Pochi giorni fa ero in pullman fermo al semaforo e guardando verso l’esterno, ho notato che un carro attrezzi stava prelevando da un parcheggio un’auto di un blu accesissimo. Al di là del fatto che, come credo si sia capito anche dalle scelte nel videoclip, mi piace molto questo genere di colori, ho notato una cosa: il tizio che monitorava la situazione aveva una faccia losca oltre ogni limite e faceva presagire che ci fosse davvero qualcosa che non andasse. Ora non so te, ma io sono il tipo che quando vede cose del genere pensa subito nell’auto ci sia un cadavere, dei documenti di cui sbarazzarsi, cose di questo tipo. Ecco, più o meno l’obiettivo è stato questo, cercare di individuare il morto nella canzone.
La cornice degli schermi a un certo punto racconta una storia di corpi e smaterializzazioni. Mi è sembrato molto interessante questa dislocazione, rispetto alla performance. Come mai questa scelta?
V: Hai toccato un altro punto per me fondamentale. Ho passato gli ultimi anni, dall’estate del 2013 fino a qualche mese fa, a lavorare a un lungometraggio intitolato “Angelo Bianco”, che è tutto basato sul concetto di sparizione. Per me è davvero un imperativo politico: sottrarsi, levarsi da mezzo, smaterializzarsi. Non è assolutamente una prospettiva escapista o individualista, è l’esatto contrario. Sparire per me non è evadere dal mondo e crearsi un piccolo e inutile paradiso protetto, ma accedere a una vera forma di collettività. Scomparire è raggiungere gli altri scomparsi, o meglio quelli che “sono stati scomparsi”. È in qualche modo un programma politico ed etico, oltre che espressivo, raggiungere la minoritarietà. Sono fatti scomparire continuamente corpi, gesti, voci e racconti, e lo si fa peraltro in nome delle identità. In un paese di sommersi e annegati, bisogna sempre cercare di raggiungere chi vive sottoterra.
L: Io a differenza di Vincenzo non sono portato a leggere la sparizione da un punto di vista politico, bensì faccio riferimento ad altri elementi. Una cosa ad esempio che mi appassiona molto è l’idea per cui l’astronomo non possa raggiungere il suo amico attraverso il solo spostamento, ma che è necessario modificare sé stesso. In altri termini, ha bisogno di sacrificare una delle sue tre dimensioni per poter raggiungere l’amico. Il problema qui era di concetto, non di forma, anche se vedere il fermo immagine di Antonio bidimensionale che vola e plana sulla superfice lunare, devo ammetterlo, ci ha divertito molto.
A un certo punto sembra che il racconto fantascientifico segua il percorso di una trasmissione di segnale che si perde nel tempo e nello spazio. In questo senso il video mi sembra maggiormente legato all’elettricità e alla cultura analogica, invece che all’elaborazione di nuove forme digitali. Questa estetica è stata ottenuta ricorrendo rigorosamente a tecniche simili, riducendo gli interventi in post produzione?
V: È un’altra delle mille facce per una possibile teoria dei segni. Nel caso precedente il problema era quello di capire come ineffettuare la rigidità nelle relazioni tra segni. Adesso, la questione ruota intorno alla trasmissione. Anche in questo caso hai centrato un punto per me importante: che relazione esiste tra un’emissione di segni e la sua ricezione? E che nessi possono esserci con un’eventuale intercettazione di questi messaggi? Non siamo soltanto sul piano della teoria del segno, ma su quello della teoria del disturbo, dell’errore di decodifica che muta il messaggio. In passato mi è capitato di scrivere qualcosa sul principio delle catene di sant’Antonio, che mi sembra straordinario. Anche sul telefono senza fili si dovrebbero scrivere delle tesi di laurea. Ancora più bello è il caso di un messaggio emesso senza che nessuno lo riceva o lo invii, o senza che il ricevitore o l’emittente siano chiaramente individuabili. È come nel caso delle Numbers Station, che mi esaltano particolarmente: siccome vivo di ossessioni, un’altra delle mie fissazioni sono queste assurde trasmissioni radio in codice. Non si sa da dove provengano, né dove vadano, né si è in grado di decrittarne i contenuti; e intanto attraversano l’etere. Anche il digitale, comunque, ha il suo rumore, vive le sue sconfitte di trasmissione: è sempre un gran momento quando, guardando un video su Youtube, all’improvviso l’immagine perde di definizione e poi si glitcha. Per venire alla tua domanda, ci vergogniamo a dire che non c’è nulla di analogico, e che nel video vedi soltanto un digitale estremamente degradato. Ciò non toglie che il sogno resta quello di poter lavorare (anche) in analogico: sono mesi che mi osservo mentre compulso banchi di montaggio video per vhs su negozi online. Personalmente non ne faccio una questione di vicinanza all’oggetto o di feticismo, come se il mezzo possedesse un calore intrinseco che il digitale non ha e che è necessario recuperare. Anzi, francamente non ho mai capito nulla del dibattito che oppone i puristi del vinile ai “traditori” che utilizzano i cd, o peggio ancora i file, che mi sembra folle come una discussione a proposito della corretta lettura di Dickens, se su un fascicolo ottocentesco o in una qualsiasi edizione moderna. In ogni caso, la fascinazione per l’analogico affonda per me le radici in uno strano immaginario che mescola insieme vecchie videocassette di Grosso guaio a Chinatown, sigle Fininvest e sequencer a palla. È la mia infanzia; è il motivo per il quale non mi sono mai interessato granché al recupero della pellicola ma solo a quello dell’elettronica; ed è il motivo per il quale per me Stranger Things è orrendo, mentre un qualsiasi film con John Candy resta memorabile. È lo stesso problema alla base della vaporwave: non si tratta di fare archeologia della tecnologia, ma della mente.
L: Quando ero piccolo (anche tutt’ora a volte), spesso a pranzo mettevo i canali delle reti locali e mi divertivo come un pazzo, soprattutto con le televendite, perché chiunque vi lavori dentro è impacciato (lo dico con affetto) e semplice (lo dico con ammirazione). Non lo so, è come se vedendole riuscissi a percepire il curioso dramma di quelle persone che così duramente stavano provando a venderti un set di pentole e capissi che stavano facendo uno sforzo abissale. Poi ho lavorato per un po’ in una rete privata di Salerno e ti posso assicurare che la situazione è davvero dura da digerire: non ci sono mai soldi, certa gente non viene pagata per mesi, hanno macchine per il montaggio di ormai 10 anni fa (il che è un’eternità) e alcuni, non esagero, ci hanno perso la testa. Ho imparato ad apprezzare tantissimo questa realtà professionale, senza che oggi mi senta impedito di ridere ancora di certe trasmissioni con una giusta dose di sano cinismo, anche quelle di cui conosco personalmente i realizzatori. Tutto ciò per spiegarti che sono estremamente affezionato alla cultura analogica, essendo anche io figlio del catodico. Dunque si, per me il videoclip affonda le radici nell’analogico e le strutture digitali sono solo uno strumento meccanico per me, ma quando mi siedo davanti al PC mi sale sempre una vena di esaltazione pura. Non posso farci nulla, è più forte di me, adoro poter modificare le immagini come mi pare. Forse può sembrare banale, ma per me sapere che posso fare praticamente quasi tutto con gli strumenti a mia disposizione mi esalta alla follia. Ad ogni modo avrei voluto tantissimo che quelle maledette ventisette televisioni funzionassero. Ne avrei approfittato per provare un esperimento con un oscilloscopio che voglio fare da tanto tempo. Al contrario erano davvero messe male, rotte, sporche e per di più con diversi adesivi sugli schermi e non potendo sfruttare alcun tipo di segnale analogico abbiamo dovuto mascherare manualmente in post produzione tutte le tv, in tutte quante le inquadrature, una ad una. Una volta finito questo processo e pulito le inquadrature abbiamo creato ventisette differenti contributi, tutti cronometrati e misurati al frame, per inserire ciascuno nella sua specifica televisione. Solo alla fine abbiamo aggiunto in ogni inquadratura i musicisti in controluce, che avevamo girato a parte in uno studio con un green screen. Considera poi l’introduzione, il finale, il girare i contributi, tutta l’effettistica, il fatto che non tutte le tv abbiano le stesse regole per ciò che vi accade dentro… insomma, non è stata una passeggiata.
La realtà aumentata mi pare sia confinata nel guscio dell’ellisse narrativa che apre e chiude il video…
V: Io sto attualmente scrivendo un piccolo film in cui la realtà aumentata gioca un ruolo importante. In Stella Danzante ci sono tre momenti, e ciascuno implica il precedente ed esplica il successivo, circolarmente: un uomo, il suo sogno erotico e il suo visore innescano una serie di pannelli che si risolvono in un abbraccio castissimo, sulla Luna; e si ritorna all’uomo e al suo sogno. Tutto esiste come una serie di sfondamenti progressivi: l’abbraccio è nelle tv, le tv sono nel live, il live è nel visore, il visore è nel sogno, il sogno è nell’erotomane, l’erotomane è nell’abbraccio… La realtà aumentata è confinata in una porzione di videoclip, ma solo perché è una parte minima degli intrecci che proviamo a descrivere.
L: L’idea ci è venuta guardando il personaggio che interpreta l’erotomane. Cerchiamo sempre di sfruttare gli attori per come ci si presentano e lui quando lo abbiamo conosciuto era così, con gli occhiali luminosi e tutto il resto. Lui è una sorta di “mascotte” dei Manica, e devo dire che disporre di una mascotte del genere non è da tutti. La forma circolare è di successiva derivazione, nel senso che la nostra intenzione era quella di tenere lui come scintilla scatenante di tutte le diverse implicazioni.
State lavorando a qualcosa di nuovo (separatamente)? Tornerete a lavorare insieme?
V: Torneremo a lavorare assieme a breve per un nuovo video dei Manica. Io sto cercando una distribuzione e soprattutto visibilità per il mio film, “Angelo Bianco”, di cui ho parlato in precedenza. Sto preparando un mediometraggio intitolato Il sovranista (quello con la realtà aumentata), che sarà musicato da Spettro Family, e un documentario su uno dei più grandi fenomeni religiosi extracanonici del ‘900. E, a parte questi, ci sono almeno altri dieci film in testa.
L: Sto lavorando al mio primo film intitolato Brodo di Carne incentrato sul fenomeno del Brigatismo Rosso a Salerno fra gli anni ’60 e ‘80. Al momento sono in una fase di riscrittura e più vado avanti più mi rendo conto che questa cosa avrà bisogno di una produzione, della quale sono alla ricerca. Ho già del materiale girato e ho passato tanto tempo in compagnia di un ex-brigatista, oggi ridotto in miseria a vivere in una roulotte decadente in un parcheggio di Salerno. Pochi giorni fa ho provato a chiamarlo per chiedergli come stesse ma non risponde al cellulare. Spero stia bene. Parallelamente sto preparando un mockumentary su un complottista della provincia di Salerno dal titolo “Latticidio”. Poi ci sarebbe anche altra roba di cui credo però sia prematuro parlare. Per quanto riguarda i nostri lavori, i Manica ci hanno già prenotati entrambi per il loro prossimo videoclip, stavolta dai toni decisamente diversi. A quanto pare non hanno capito che di noi c’è poco di che fidarsi.
Vincenzo Basso e Luca Lazzaruolo: biografie professionali
Vincenzo Basso ha studiato cinema presso la NUCT di Cinecittà e le università di Tor Vergata e Roma Tre. È ricercatore autonomo di teoria del cinema e filosofia. Ha realizzato videoclip per Lento e Lloyd Turner, documentari d’arte per Agave Film e Artribune e ha tenuto corsi di cinema presso istituti superiori. Dal 2014 al 2019 ha girato il suo primo lungometraggio, “Angelo Bianco”, in attesa di distribuzione. Attualmente è al lavoro su un mediometraggio intitolato “Il Sovranista”.
Luca Lazzaruolo nasce nel 1991 a Salerno. Ha studiato Architettura presso l’università di Napoli “Federico II”, Fotografia presso la Scuola di “Salerno Fotografia” e studia Post-produzione all’università di Roma Tre. Ora si occupa di Cinema e Musica. Dopo diversi anni di lavoro fra videoclip e video istituzionali, oggi è alle prese con il suo primo lungometraggio autoprodotto, “Brodo di Carne” ed un mockumentary in cantiere, “Latticidio”.
Manica, il progetto di Andrea Manica
Manica, è un progetto di cantautorato noise punk.
Il power trio si è formato dopo la pubblicazione del primo ep “La faccia degli dei“ con lo scopo di rendere live le canzoni registrate, in poco tempo il gruppo ha arrangiato nuovi brani e ora è pronto al lancio di nuovi singoli.
Il gruppo è un power trio rumoroso e agguerrito, che si pone l’obbiettivo di miscelare le parole ironiche e provocatorie con un sound alternativo, originale e divertente. Andrea Manica (cantautore da osteria noise) , chitarra e voce, Ricardo Tomba (The modern string project) , batteria e Francesco Popup (Andes Empire) al Basso, vengono da esperienze musicali diverse ma si trovano per affinità elettive a portare il loro sound spericolato sui palchi dell’underground bolognese con attitudine punk e voglia di sperimentare. La produzione del progetto artistico è affidata a Lorenzo Mazzilli (The Giant Undertow, The Johnny Clash Project).
(Ufficio stampa Doppio Clic Promotions)