sabato, Novembre 2, 2024

Marco Parente – Disco Pubblico, un disco vivente: l’intervista

 

Disco Pubblico è il nuovo album di Marco Parente, ma non lo troverete nei negozi. Il cantautore di origine napoletane ma ormai di stanza a Firenze da moltissimi anni ha infatti deciso di proporre le sue nuove canzoni in modo completamente diverso: invece di seguire la cristallizzata trafila registrazione-disco-promozione live, ha deciso di passare direttamente al terzo stadio, ma con una differenza sostanziale rispetto all’esistente.

Disco Pubblico infatti viene suonato solamente dal vivo, non esistono registrazioni in studio, perché chi si occuperà di diffondere i brani della nuova produzione di Marco Parente sarà il suo stesso pubblico durante i concerti. Agli spettatori viene chiesto di registrare i brani con i mezzi che la tecnologia portabile mette loro a disposizione, come per esempio i propri smartphone, amplificando così una consuetudine ormai legata ad un gesto della prassi comune. Il musicista apolide toscano invita quindi i suoi ascoltatori a postare direttamente online i contenuti audiovisivi registrati durante i suoi concerti, utilizzando l’hashtag #discopubblico, così da creare un archivio attraverso il tempo e le sue esibizioni con infinite esecuzioni filmate del nuovo repertorio. Questa modalità di diffusione e di promozione è sicuramente una scommessa per Parente, con se stesso e con il suo pubblico. Per sapere se sarà vinta dovremo aspettare qualche mese, nel frattempo abbiamo deciso di incontrarlo in una delle prime date del suo tour, quella al Tambourine di Seregno, per capire cosa l’ha spinto a intraprendere questo percorso e per approfondire anche dal punto di vista artistico e musicale i brani di questo disco vivente, che sono molto belli, a conferma se ce ne fosse stato bisogno,  delle ottime doti autoriali di Parente.

Marco Parente - Disco Pubblico
Marco Parente – Disco Pubblico

La prima domanda non può che riguardare l’idea alla base di “Disco Pubblico”. Da dove arriva? Cosa ti ha spinto a proporre la tua nuova produzione artistica in questo modo?

Arriva da due strade parallele: una più personale e l’altra legata all’osservazione di quello che sta accadendo, nel tentativo di comprendere come si sta evolvendo il senso del prodotto creativo. Il percorso personale inizia già a partire dal Diavolaccio, spettacolo che pochi hanno visto e che per me invece ha rappesentato una bella svolta. Come “spettacolo musicale” non rientrava nei canoni del live e sopratutto non aveva un suo corrispettivo discografico

Era una storia, una piccola operina dove tutto nasceva dalla canzone Il Diavolaccio, che già esisteva e che poi ha avuto una vita discografica (n.d.r. il brano “Il Diavolaccio” è inserito ne “La riproduzione dei fiori”, album di Parente del 2011, Guarda la video-conversazione con Marco Parente registrata durante la promozione del disco), ma che era nata come punto di partenza per affrontare il discorso estemporaneo dell’esecuzione. In teatro sono abituati a questo, perché l’irriproducibilità dell’atto gli appartiene, mentre per me era un esperimento un po’ ibrido. Già allora avevo fatto un piccolo comunicato in cui mi definivo “una pubblicazione vivente”, ma la svolta vera e propria è arrivata in seguito, anche grazie ad alcune letture,  cito a questo proposito “Come funziona la musica” di David Byrne. L’esperimento del Diavolaccio e della pubblicazione vivente, pur sentendolo molto mio, era troppo autoreferenziale. Ecco che l’evoluzione di quel progetto sta tutta nella condivisione, in questo caso l’opera si compie solo se c’è almeno uno spettatore davanti e se c’è un luogo che ci ospita. All’inizio non ero pronto o forse non avevo capito, il concetto mi piaceva però ero un po’ troppo megalomane, poi ho capito come fare. È stato importante leggere David Byrne che parla con semplicità e naturalezza del sistema musica, anche quello più prettamente industriale, quindi fisico, della catena di montaggio, ma con una consapevolezza che lo rende leggero e che rende leggere anche alcune discussioni importanti; ne parla sempre in modo aperto, mirato a coinvolgere, e dimostra che può anche essere divertente affrontare i problemi. Ormai sappiamo che il supporto fisico si è smaterializzato. Ci si chiede che senso abbia fare dischi, magari con cura maniacale, se poi non vengono ascoltati o vengono ascoltati di sfuggita, con il rischio che tutto vada perso. All’inizio devo dire che cinismo e un po’ di frustrazione erano nell’ordine delle cose, poi ho deciso di essere più libero, di eliminare totalmente la trafila burocratica della catena di montaggio e di provare a collocare nuovamente al centro la musica. L’unico modo di farlo è quello di tornare al rito collettivo che si può esprimere solo dal vivo. Questo però è un disco che gira nel momento in cui lo si esegue dal vivo, con le dovute proporzioni si avvicina a quello che accade  con la musica classica: esiste uno spartito, ma in questo caso è uno spartito vivente. Mentre suoniamo è come se il disco girasse, in quel momento stiamo facendo l’opera. Poi quest’opera può vaporizzarsi  oppure ognuno può farsi il suo film, provando almeno ad usare in modo più consapevole questa tecnologia che abbiamo sempre a portata di mano e che spesso viene usata solo in modo passivo.

Marco Parente feat. Francesca Messina (aka Femina Ridens) “Combaciare” live @ Glue, Firenze 05.03.2016

Non hai paura, proprio per questo, di spingere la gente a guardare il concerto da dietro uno smartphone e a viverlo meno?

Lo fanno già, se vogliono farlo. Mi auguro però che in questo caso lo facciano con un occhio più responsabile, anche perché sono io a dare importanza a ciò che fanno, per me il loro punto di vista diventa la copia del disco. Lo spartito è sempre lì ed è sempre uguale, interpretato più o meno bene ma questo dipende da noi, mentre per chi guarda, quel punto di vista inizia ad essere il disco. All’inizio potrebbe essere strano, ma posso dirti che durante la prima a Radio Popolare il pubblico ha colto questo aspetto. C’era chi ha voluto semplicemente seguire il flusso e registrare nel suo heart-disc, ma anche molti che hanno preso sul serio l’invito registrando e caricando online i filmati con l’hashtag #discopubblico. Pian piano si sta formando sul sito un archivio che rappresenta la scia del disco.

L’assenza di una forma fissata su disco per le canzoni vi spinge al cambiamento in fase di esecuzione?

No, per ora no. Il lavoro compositivo che ho fatto per un anno e mezzo, nel quale mi sono volutamente tirato fuori da una certa estetica e da quella che è la produzione artistica, mi ha portato a fare un disco che consapevolmente è scritto, ma non prodotto. I musicisti avevano la possibilità di fare solo una parte, quindi ho dovuto lavorare molto sulla scrittura per far sì che le canzoni reggessero, sul cesello della struttura e dell’armonia, arrivando fino all’essenza. Al momento l’idea di cambiare solo una nota la considero un errore. Se cambiamo una nota vuol dire che abbiamo sbagliato.

Credi davvero che il supporto fisico non abbia più senso? E il tuo pubblico che ne pensa? Credo che molti dei tuoi fan siano ancora legati al disco…

Sì, infatti sono già arrivati dei messaggi minatori… è un rischio che secondo me è bello correre. Ed è altrettanto vero che una scelta del genere potrebbe tagliare fuori persone che non riescono a venire a vedere il disco nel suo farsi. Penso però che quello che si andrà a costituire attraverso la rete internet servirà per farsi un’ottima idea del disco. Ho fatto un confronto tra quello che ha registrato la radio, passando dal mixer, e quello che arrivava dagli smartphone: è più chiaro e comunicativo quest’ultimo, perché riprende quel punto di vista ben preciso. In realtà i microfoni degli smartphone sono piuttosto sofisticati e prendono quello che devono prendere, l’essenza della canzone e il lato comunicativo. Quando utilizzi alcuni filtri, e si va appunto in studio per quello, è come dover ricostruire quello che già c’è in natura. A me questo iniziava a pesare: io sono entrato in studio all’inizio, ne uscivo insoddisfatto. Le canzoni mi piacevano, e anche tanto, ma non altrettanto ascoltarle. Questo non andava bene. È un momento in cui non voglio filtri, cosa che mi permette di dedicarmi molto di più al processo della scrittura.

Marco Parente, "Disco Pubblico" - la band
Marco Parente, “Disco Pubblico” – la band

Sul tuo sito citi come uniche fonti di ispirazione per Disco Pubblico gli ultimi due dischi di Caetano Veloso. Cosa ti ha colpito in quelle opere? E quali delle loro caratteristiche vorresti portare in quello che fai?

Se tu senti quei dischi hai la sensazione di stare con loro in una sala prove: Caetano Veloso ha la sua voce meravigliosa ma ha un SM57 davanti. Ho la sensazione che tutto quello che fanno non passi dal filtro delle macchine, ma che ci sia una band, musicisti con una bella testa che accompagnano Caetano, che ormai è un classico, ma che si rimette in gioco tantissimo fino ad arrivare ad una incredibile crudezza. Sembra una cosa fatta in sala prove e poi pubblicata. È tutto molto secco, asciutto, non c’è nessuna concessione all’abbellimento o ad artifici vari. Questo per me è stato un faro. Lui alla fine l’ha prodotto, perché un’estetica c’è. Prendendo spunto da quel tipo di crudezza e di essenzialità ho estremizzato questa intuizione senza registrare i brani. Faccio sì che l’opera sia il momento in cui queste canzoni vengono eseguite e questo mi rimette in gioco dal punto di vista dell’energia e della condivisione con un pubblico, con le persone, con un luogo. L’idea che questa cosa sfugga dalla catena di montaggio mi piace anche perché mi rimette in gioco ogni volta, il sapere che non c’è mai un approdo sicuro. L’unica sicurezza è sapere che quelle canzoni sono scritte, non avere un riferimento fisico per quanto mi riguarda aggiunge molto senso. Dà senso al lavoro, alle canzoni, alla mia scrittura, al mio continuare a scrivere e suonare.

Le canzoni sono tutte molto belle. Dai primi ascolti posso dirti che la mia preferita è “In mezzo al buio”. Puoi raccontarci qualcosa sulla genesi di questo brano?

È una storia vera, così come Quand’è che si ricomincia da capo. Sono due brani che sono piccoli racconti esistenziali, però di un’esistenza parallela, che viviamo in parallelo. La storia di In mezzo al buio è successa davvero: ero su un treno regionale Faenza-Firenze e davanti a me si è seduta questa ragazza non vedente. Io ho cercato di aiutarla un po’ ma sembrava che lei sapesse benissimo cosa doveva fare, dove si doveva mettere. È salito un senso di inquietudine perché avevo la sensazione che sentisse in modo molto più forte di quanto non si veda. Da quel momento ho avuto la sensazione che questa persona mi stesse facendo una radiografia, che sapesse esattamente che cosa avevo dentro. È stato un viaggio a tutti gli effetti, oltre a quello fisico con il treno. Ero in imbarazzo perché pensavo che lei mi vedesse, quindi non sapevo dove guardare, mi sembrava che questa persona sapesse vita, morte e miracoli del sottoscritto. Poi questa storia è diventata una canzone un po’ buffa, con queste armonie in maggiore, molto aperte. “In mezzo al buio” e Quand’è che si ricomincia da capo sono figlie della stessa impronta.

Marco Parente – Uomini Incagliati – Live @ Auditorium Popolare di Milano, 29 gennaio 2016

Un altro brano che mi piace molto è “Uomini incagliati”, col suo piano jazzato, atmosferico. Come hai lavorato su questa canzone?

Gli uomini incagliati per me sono il corrispettivo degli uomini vuoti di T.S. Eliot, che avevo sentito recitare da Marlon Brando in Apocalypse Now. Lì avevo pensato “ecco cos’è la poesia”, è diventato il mio ideale di poesia scritta. Ha scavato molto interiormente, però con una grande differenza: l’uomo di Eliot muore, si parla della morte e c’è un continuo riferimento al passaggio, invece “Uomini incagliati” è esattamente il contrario. È un po’ il trait d’union tematico di tutto il disco, che è l’avere i piedi per terra e lo sporcarsi le mani con i sentimenti quotidiani. Questi uomini incagliati sono aggrappati alla vita, parlano solo di quello. In questo senso è diametralmente opposto, però mi piace illudermi e pensare che sia la mia versione di Uomini vuoti.

Marco Parente - Disco Pubblico
Marco Parente – Disco Pubblico

Se invece dovessi scegliere tu il pezzo che preferisci tra quelli del disco?

Cambia a seconda dei momenti. Non c’è una canzone più irrisolta o che ho lasciato un po’ andare. Anche un brano come “Nella giungla”, che rappresenta un po’ l’inizio del lato B ed è anche un po’ più disimpegnata, alla fine dice cose che sento molto. Ogni brano ha il suo mondo che per me è importante, quindi non ce n’è uno in particolare.

Abbiamo parlato di David Byrne e poi di Caetano Veloso. Qual è invece il tuo rapporto con il cantautorato storico italiano?

Non posso dire che ci sia, perché se ti dico che ho scoperto Lucio Dalla due anni, significa che non ha inciso sul mio percorso. Fabrizio De André già lo sento un po’ più mio, però non posso dire di essere il conoscitore di De André fin dagli inizi. Allora ero preso da musicisti che ruotavano intorno al mondo di David Sylvian, per cui ero preso dall’idea della musica etnica che diventava sperimentale, il primo disco in tal senso era proprio di David Byrne con Brian Eno, My Life In The Bush Of Ghosts. Mi piaceva l’idea che qualcuno in Italia facesse cose assimilabili, Crêuza de mä è uno dei pochi dischi apprezzati da musicisti del calibro di Byrne e Sylvian ma anche da Peter Gabriel. Il passaggio verso questo disco era quindi viziato da qualcosa che stavo seguendo e dal fatto che volessi trovare qualcuno che anche in Italia facesse questo tipo di esperimento. Per il resto mi piacciono in maniera disimpegnata le canzoni pop italiane, quelle estremamente pop. Preferisco una canzone pop molto leggera e legata al contesto mainstream, più onesta rispetto a brani composti da chi ha pretese di ricerca sia sul testo che sulla musica, ma senza onestà; ecco in quei casi divento molto critico.

Gli altri progetti che hai portato avanti in questi anni, Proiettili Buoni e Betti Barsantini, hanno un futuro?

Proiettili Buoni non direi, è stato una meteora. Magari invecchiando ci verrà voglia di fare una reunion, ma sarebbe per goliardia e per voglia di ritrovarsi insieme. Betti Barsantini invece è un progetto che deve continuare. Non è ancora arrivato il momento, quando ci troviamo parliamo molto di cosa potremmo fare, si inizia a progettare ma non è ancora arrivato il momento di trovarsi nella stessa stanza con uno strumento per vedere che succede. È un progetto assolutamente vivo, a meno di non litigare a un certo punto.

Un’altra collaborazione che porti avanti saltuariamente è quella con Vincenzo Vasi. La scorsa estate mi disse che quando ascolta la tua musica si commuove. Come ti trovi a suonare con lui? Cosa vi accomuna?

Abbiamo una follia in comune. Si capisce molto bene vedendoci suonare assieme. Lui è un folle, lo sappiamo, viene da un altro pianeta. Io ho le mie canzoni, e quelle rimangono, però ho anche un lato molto performativo e improvvisativo che non tiro fuori spesso. Penso di saper interagire nell’improvvisazione, mi è capitato con improvvisatori bravi, veri, tra cui proprio Vincenzo. Con lui era un duello vero, anzi a volte lui rimaveva sorpreso perché mi spingevo molto più sopra le righe di quanto non facesse lui. Ciononostante non era un concerto di follia, al pubblico arrivava come una cosa molto coinvolgente, un aspetto che arrivava diretto perché probabilmente si trattava di un vero e proprio rituale di liberazione per entrambi, forse più per me che imboccavo derive senza sapere dove potessero portarmi.

Le prossime date di “Disco pubblico”, il disco che cammina

08/04 Lago di Oz – Spinetoli (AP)
09/04 Live@Home Palazzo Aloigi Luzzi – Sansepolcro (AR)
15/04 Melville Caffè Letterario – Rottofreno (PC)
28/04 Lanificio 159 – Roma
06/05 Officina Giovani – Prato

Marco Parente su Facebook

Fabio Pozzi
Fabio Pozzi
Fabio Pozzi, classe 1984, sopravvive alla Brianza velenosa rifugiandosi nella musica. Già che c'è inizia pure a scrivere di concerti e dischi, dapprima in solitaria nella blogosfera, poi approdando a Indie-Eye e su un paio di altri siti.

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