La voce dolce e profonda di Marian Trapassi rivela un erotismo naturale, quello della terra che cambia durante l’esperienza del viaggio, scegliendo il racconto di una tradizione apolide che non si riferisce solo ad un crocevia di culture ma anche ad una feconda capacità di stare fuori dall’attuale grigiore, con la semplicità e la verità di chi si immagina una propria voce, creativa e originale, attraverso la musica di tempi e latitudini diverse.
Perchè se dovessimo confinare la scrittura di Marian nel codice descrittivo del cantautorato, allora perderemmo molto della sua capacità narrativa, sviluppata lungo un tracciato che recupera più tradizioni della nostra canzone, influenze manouche, il jazzin’ popolaresco delle orchestrine di strada e un’energia nomade che tiene insieme tutto quanto.
Poco importa se l’invito al viaggio nasce da un’immagine interiore o dalla vertigine della flanerie, tra città del presente e viaggi a ritroso nello spazio della memoria; nella dimensione del racconto sono i segni che contano, e quelli di Marian hanno la forza visionaria di chi è capace di acchiappare il sogno da un volto, una strada, il ricordo di un’estate, l’immagine di una casa che non c’è, la necessità di amare e la forza dell’illusione.
E se “l’arancia” descrive un desiderio dolceaspro con i modi di una ballata acustica spinta verso la dimensione sensuale e allo stesso tempo onirica dal fender rhodes di Vittorio Cosma e dal flicorno di Raffaele Kohler, il sogno che è il desiderio di “Giovanni” di spiccare il volo è sottolineato dai cori di Nicola Cioce e dai legni di Mario Arcari in un’impennata swing degna di Gorni Kramer.
Il passato della canzone italiana che infiammava i dancing-hall, tra esotismi latin-jazz e una rilettura di quella tradizione da un’angolatura melò, sembra attraversare alcuni dei brani di “Bellavita“, ma con una percezione meno orchestrale dell’ordito, qui declinato in versione intima, come a trattenerne la dolce e struggente malinconia nello spazio di un’infinita rêverie.
“My love” descrive benissimo questa sospensione del tempo; racconto d’amore tra realtà e sogno, è un tango dell’illusione, “pensiero triste che si balla”, per rubare una bellissima espressione di Enrique Santos, rimane fissato nello spazio interiore della canzone, quella italiana degli anni ’40 influenzata da questi stessi ritmi, ma evocata da Marian con l’intimità radicale del folk-blues, che le consente di sparigliare le carte, puntando dritta al cuore.
Del resto “A casa” si riferisce ancora una volta alla complessità di un’immagine mnestica attraverso l’incedere di una ballata, ma da quale latitudine e verso quale terra, se a stratificare il suono dell’acustica intervengono quelli della tradizione curda (Kara Güneş) ? Ecco allora che “Bellavita” sembra il racconto di un eterno ritorno dal sogno alla realtà, cangiante ad ogni ascolto, come i viaggi che dalla terra di nessuno ci conducono in uno spazio condiviso.