lunedì, Dicembre 30, 2024

Martina Falcucci Chinca – Mal’aria, il video per Giovanni Lindo Feretti in concorso ad Asolo Art Film Festival 2021. L’intervista

"Mal'aria è un pezzo della nostra storia e insieme la storia di tutto il mondo. Oscilla continuamente tra il pubblico dominio e la più struggente intimità". Così Martina Falcucci Chinca sul video che ha realizzato per Giovanni Lindo Ferretti, in concorso ad Asolo Art Film Festival 2021, nella sezione "Music Video". Il making e tutti le fasi della lavorazione nell'intervista curata da Michele Faggi

Mal’aria è il video che Martina Falcucci Chinca ha realizzato per Giovanni Lindo Ferretti. Pubblicato in rete nel maggio del 2020, è stato selezionato per il concorso di Asolo Art Film Festival 2021 diretto da Thomas Torelli, la più antica manifestazione legata alla relazione tra cinema e arte. Il video fa parte dei 20 video musicali che caratterizzano la sezione “Music Video” del festival, curata da Michele Faggi.

L’intervista a Martina Falcucci Chinca sul suo percorso come videomaker e sulla collaborazione con Giovanni Lindo Ferretti è possibile leggerla qui sotto, dopo il video di “Mal’aria”.

Giovanni Lindo Ferretti – Mal’aria – il video di Martina Falcucci Chinca

Quando il video di “Mal’aria” è stato diffuso in rete per la prima volta, la sensazione sollecitata dal precedente Ora, si è consolidata. Due “manufatti” digitali ideati per la diffusione in rete, con un procedimento non dissimile da quello del Bowie più artigianale, che investe 12,99 dollari per realizzare personalmente la clip di Love is Lost, nella versione remixata da James Murphy. Intimità e, pasolinianamente, immagini di poesia che piegano i tempi della rete, invece di farsi fagocitare dal flusso.

Martina Falcucci Chinca, nella sua collaborazione con Giovanni Lindo Ferretti, ci ha raccontato, in modo puntuale e appassionato, l’unicità del progetto, suggerendoci indirettamente quanto il videoclip, così concepito, assuma una diversa forma dal veicolo semplicemente promozionale, per diventare parte di un discorso estetico ed espressivo più complesso, attraverso un “oggetto” autosufficiente, frutto di un “rimpallo di email tracce audio telefonini ipad e frustrazioni” tra Ferretti, Chinca e Luca Rossi.

L’aspetto più emozionante del lavoro di Falcucci Chinca è nel dialogo polifonico stabilito e condotto insieme a Giovanni Lindo Ferretti. Nel rispetto del discorso poetico elaborato dall’artista reggiano, Martina elabora una visione combinatoria che trasforma la lettura in sguardo, l’interpretazione in visione, il canto nell’esperienza quotidiana tra vita ed emozione.

Mal’aria è un lavoro potentissimo e urgente, non solo per il modo in cui ci parla dai crinali di Cerreto Alpi di un’irreversibile perdita cominciata molto prima dell’emergenza epidemiologica, ma per la forma personale e allo stesso tempo universale che cuce un rimario fatto di parola e immagine, dove la prima si trasforma nell’altra e viceversa.

Si tratta di un lavoro difficilmente classificabile allora, sospeso tra il diario, la testimonianza, l’esperimento visuale, ma soprattutto la modalità in cui il reale mediato risuona e trasforma l’immediatezza e l’irriducibilità dell’istante.

Da una parte la sensazione che ci si affidi al montaggio come sistema di processi destinati alla trasfigurazione del reale percepito, dall’altra l’infrazione vitale di un metodo apparentemente costruttivista, che lascia spazio all’istinto e al magma visionario originato dalla reazione tra interno ed esterno.

“Ora” e “Mal’aria”, quando sono usciti, li ho subito fatti vedere a mio padre, morto lo scorso marzo 2021. Piero, 91 anni nel maggio 2020, aveva conosciuto la scrittura di Giovanni Lindo Ferretti grazie alla sua circoscritta collaborazione con il quotidiano L’Avvenire. Da Cattolico interessato principalmente all’approfondimento incessante dell’esperienza mistica, aveva trovato una particolare sintonia con le riflessioni di GLF e in “Ora” e “Mal’aria”, che gli erano piaciuti molto, il giovane che ancora in lui andava solitario al cinema per vedere “L’arpa Birmana”, deve aver rintracciato una forza immaginale e simbolica non dissimile, soprattutto nella capacità di non sottomettere la natura al simbolo, ricavando il secondo dagli epifenomeni della prima.

Sul cinema contratto e densissimo di Martina Falcucci Chinca abbiamo cercato di comprendere qualcosa in più grazie a questa illuminante conversazione

Martina Falcucci Chinca, il video di Mal’aria e la collaborazione con Giovanni Lindo Ferretti. L’intervista:

Puoi raccontarci la tua formazione e come sei arrivata al videomaking?

La mia formazione è stata prettamente fotografica, sono stata attratta dalla fotografia fin da bambina, la vecchia Nikomat di mia madre era un oggetto che mi affascinava moltissimo e che ho imparato presto ad usare. Al terzo anno di liceo artistico ho scelto l’indirizzo grafico esclusivamente perché era quello che più si avvicinava al mondo della fotografia, ho imparato ad usare i programmi, a lavorare le immagini, a impaginarle. Mia madre mi regalò una piccola Canon digitale, facevo foto di continuo.

Finito il liceo avevo le idee ben chiare; studiare fotografia, ma in un’altra città, Roma non faceva per me a quel tempo. Decisi di trasferirmi a Bologna, ascoltavo molto i CCCP e i CSI, l’Emilia fu indubbiamente una scelta condizionata da riferimenti culturali e musicali.

Cosa ti ha dato Bologna e cosa è successo dopo il tuo trasferimento?

Mi sono innamorata della città, ho frequentato una scuola di fotografia, lo Spazio Labò, dove gli insegnanti sono stati fondamentali e motivanti, abbiamo sperimentato e parlato di tutto, ho conosciuto splendide persone. Mi sono definita fotografa fino a quando, alcuni anni dopo, ho voluto fare un esperimento e non sono più tornata indietro.

Vivevo già in montagna da un po’ e lavoravo con Giovanni Lindo Ferretti e la sua fondazione, una sera di novembre siamo andati a Modena a vedere una mostra del suo amico pittore Andrea Chiesi. Ero molto emozionata di conoscerlo, la mostra era stupenda, allestita in un’ex macelleria, molto interessante. Ero stata incaricata di fare delle foto per conservare memoria di quell’incontro, ma senza nemmeno pensarci ho iniziato a riprendere invece che a scattare, sul momento mi è sembrato l’unico modo per catturare l’anima della serata, l’atmosfera così particolare. Arrivata a casa ho aperto il programma di montaggio video che avevo di default sul computer e ho cominciato a montare immagini e musica, senza saperlo fare. Ne uscì fuori un video molto grezzo, mi emozionai, ero io ed era quello che volevo finalmente.

La collaborazione con Giovanni Lindo Ferretti come è nata e come si è sviluppata?

Ho visto per la prima volta Giovanni a 18 anni, durante un concerto a Villa Ada. Tra i mille CD che avevamo in casa, ce n’era uno dei CSI, ma non gli avevo mai prestato davvero attenzione. Quel concerto ha indubbiamente fatto prendere alla mia vita un altro percorso, a volte mi chiedo dove e come sarei se non ci fossi andata. Furono due ore indimenticabili, credo di non aver mosso un muscolo per tutto il tempo. Ero molto giovane e ho sentito una grande affinità. Poco tempo dopo, uscì la notizia dello spettacolo equestre che Giovanni avrebbe messo in scena a Reggio Emilia. Andai a vederlo; i cavalli più belli che abbia mai visto. Sono cresciuta in mezzo agli animali, vado a cavallo da quando sono bambina, e ho sempre frequentato i borghi di montagna, parte della mia famiglia viene proprio da queste valli. Ho iniziato a frequentare Giovanni, Cinzia e Marcello, i suoi soci di allora, inizialmente nelle vacanze estive, facendo lezioni di equitazione e aiutando nella stalla.

Giovanni mi intimoriva, andava e veniva.

Durante il periodo bolognese andavo spesso a trovarli nel weekend e a un certo punto uscì la proposta di andare per un’estate a lavorare nelle stalle, accettai. Era il 2015 e da allora vivo su queste montagne. Ho lavorato per più di un anno come stalliera, mi occupavo dei cavalli, si mangiava tutti insieme, si lavorava tutti insieme.

Poi ho cambiato “ruolo”, ed è iniziata la collaborazione con Giovanni: lavori grafici, fotografie, il sito della fondazione da gestire, i social, alla fine la scoperta dei video.

Quello del teatro barbarico fu un periodo di grande crescita per me; viaggiavamo in carovana con più di 20 cavalli, cani, persone da tutta Italia venute a dare una mano, una grande lezione di vita. Quando l’esperienza si concluse fu drammatico per tutti, cambiarono molte cose nel quotidiano, tranne il rapporto con Giovanni, che ormai consideravo una persona di famiglia. Credo di poter dire che lavoriamo bene insieme e che c’è una buona comprensione reciproca, non ho mai fatto fatica a comunicare con lui, di solito ci troviamo sulla stessa linea. Prima della collaborazione c’è un rapporto di amicizia e una frequentazione quotidiana che rende tutto molto semplice e naturale.

Ricordo quanto mi imbarazzava, i primi tempi, mostrargli una mia foto o un mio video. Confrontarmi con lui e avere il suo giudizio sui miei lavori è stato essenziale e lo è ancora oggi, le opinioni che ascolto davvero sono le sue e quelle di mia madre.

Per Giovanni hai diretto numerosi contributi video. A partire da alcuni brevi frammenti che chiamerei quasi come video-haiku, dove sviluppi un’idea sensoriale intorno a pochi elementi della natura e del mondo aurorale che si muove intorno a luoghi, ambienti e natura in cui la poetica stessa di Giovanni prende forma. Puoi raccontarci qualcosa sul metodo e sulle scelte che hai operato per realizzare questi frammenti, tra l’altro tutti molto belli e alla ricerca di un’intensità primigenia…

Mi piace molto la definizione di video-haiku, in effetti era quella l’intenzione, comunicare un brivido, una sensazione momentanea. Non c’è nulla di programmato in quei video, non c’è alcuna narrazione, e volendo, ognuno può intendere ciò che vuole. In generale sono molto impulsiva, sia nelle riprese che nel montaggio. Nei frammenti in particolare posso dire di esser stata veramente me stessa, cercando di dare forma a un sentimento, a un’inquietudine, a una gioia….

Nessuna Garanzia per Nessuno – Fondazione Ferretti – Video di Martina Falcucci Chinca

Ad essere sincera questi brevi video sono quasi uno sfogo per me, provo a concentrare in un minuto tutta una serie di emozioni che non riuscirei mai a tirare fuori a parole. C’è chi in questi momenti di forte emotività sente il bisogno di scrivere o magari di parlare, questo è il mio modo di liberarmi e poi sentirmi vuota, pronta a riempirmi di nuovo.

Il video di Mal’aria è il secondo in ordine di tempo realizzato per Giovanni Lindo Ferretti, durante il periodo della pandemia. A mio avviso è un lavoro molto stratificato, che si muove in più direzioni: il diario di vita, la testimonianza di GLF come soggetto poetico, e successivamente un lavoro di montaggio e frammentazione molto potente, che si muove tra elementi visual e un lessico legato al cinema delle avanguardie. Ci sono venuti in mente Dziga Vertov e la trilogia di Pudovkin. Puoi raccontarci qualcosa sulle scelte, sia tecniche che espressive, che hai affrontato per la realizzazione del video?

Mal’aria è sicuramente il progetto più complesso che ho costruito fino a questo momento, la complessità e data dal testo che Giovanni ha scritto, dentro c’è un mondo. A differenza delle volte precedenti, i due video di cui parli, Ora e Mal’aria, sono stati pensati fin dall’inizio come un qualcosa che poi avrebbe avuto la forma di un progetto video. Non è una differenza da poco, intendo dire che se prima mi ispiravo a materiali preesistenti, conosciuti, in questo caso il tutto è stato creato appositamente per costruire qualcosa di nuovo a livello comunicativo.

Ho avuto timore quando Giovanni, dopo averne parlato a lungo, mi ha consegnato il testo definitivo di Mal’aria. Leggendo cercavo di visualizzare immagini che però mi sembrava impossibile trovare. Il mondo era diventato qualcos’altro da un mese all’altro, un decreto legge vietava di uscire di casa. Bisognava dare un volto ad un pensiero profondamente poetico e attualissimo allo stesso tempo, facendosi bastare il paese, i campi, i boschi, la stalla, i luoghi strettamente attorno a casa, dal minuscolo al maiuscolo.

Ho sentito su di me una grande responsabilità, credo che il messaggio di Giovanni in quel pezzo sia potentissimo.

Dopo pochi giorni, Luca Rossi, dal crinale vicino, ci ha spedito il montato con la musica e le parti cantate. Da lì in poi tutto è stato travolgente, ho iniziato ad ascoltare il pezzo di continuo, uscivo di casa e andavo in giro in cerca di ispirazione, fuori e dentro il paese deserto. Alcune parti le abbiamo costruite con Giovanni, altre sono mie divagazioni, altre ancora sono pezzi di vita di quei giorni, come le riprese a cavallo. Ci sono stati anche dei cambiamenti in corso d’opera, mentre montavo il video è morto in una RSA un anziano parente di Giovanni, in solitudine, come tantissimi altri in quel periodo. Uno degli ultimi pastori qui intorno, il funerale guardato da lontano, in pochi, non si poteva entrare.

Ci è venuto naturale dedicargli l’ultima parte del video in cui Giovanni canta “Vecchio scarpone”, era ovvio fosse lì per un motivo e con lo svolgersi degli eventi ci è stato chiaro il perché.

In fin dei conti Mal’aria è un pezzo della nostra storia e insieme la storia di tutto il mondo. Oscilla continuamente tra il pubblico dominio e la più struggente intimità

Che tipo di interazione creativa stabilisci con Giovanni? Intendo dire, come discutete nelle fasi di pre e post produzione, la resa di un video?

Amichevolmente e in grande libertà, di solito tutto sempre nasce fumando una sigaretta e parlando del più e del meno, in casa o alla stalla. Ne discutiamo un po’ e Giovanni inizia a scrivere, man mano che il testo si definisce, me lo fa leggere, a volte lo scandisce lui ad alta voce. Quando lavoriamo ad un video il processo creativo è esattamente diviso a metà, ed inizialmente è un processo solitario per entrambi: comincia lui con la scrittura e lo seguo io con le immagini, il confronto arriva sempre dopo, quando il lavoro è già strutturato. Parliamo e ci scambiamo opinioni, ma di base c’è un grande rispetto del lavoro dell’altro. La cosa bella secondo me è che non c’è mai nulla di definito, non abbiamo mai regole fisse e succede spesso che l’idea iniziale prenda altre direzioni, inaspettate.

Cambiamo spesso le carte in tavola in corso d’opera, non seguiamo una vera e propria sceneggiatura, più un’idea che man mano si definisce. Intendo dire che fin da subito ci è chiaro il messaggio, ma il modo e la forma in cui esprimerlo non sono definiti a priori. Lavorare con lui mi piace, perché riesce a mantenere la calma e la sicurezza di chi sa che alla fine andrà bene, mentre a volte io mi faccio prendere dall’ansia e dall’insicurezza.

Mi aiuta molto in questo, se inizio a scalpitare per paura di non rientrare nei tempi previsti, riesce ad essere rassicurante e fermo, magari discutiamo, ma alla fine ha sempre ragione.
Ho totale libertà nella scelta delle immagini, tutta la parte del montaggio, spesso anche la scelta della musica. Una volta impostato il lavoro glielo faccio vedere, la prima volta in silenzio, dalla seconda ne parliamo. Se c’è qualcosa che non lo convince troviamo una mediazione, il più delle volte ascolto i suoi consigli, ma è capitato anche che qualcosa mi sembrasse irrinunciabile e in quel caso è stato lasciato al suo posto.

Mentre monto un video c’è sempre una grande eccitazione nell’aria e quando finalmente è concluso, l’entusiasmo sale alle stelle, Giovanni se lo guarda in continuazione per qualche giorno e anch’io.

Come è stato lavorare in un momento storico come questo dell’emergenza epidemiologica?

Nel caso di Mal’aria gli eventi esterni hanno condizionato non poco l’umore di quei giorni. Si parlava solo dell’eccezionale momento storico in cui stavamo precipitando, preoccupazione e paura. Nonostante questo, ripensandoci, si è trattato di un momento di grande creatività. Mi rendo conto di aver avuto il privilegio di poter discutere al sole, nell’aia, all’aria aperta, i sentimenti negativi smussati da un’armonia naturale, un silenzio e una primavera bellissima. Dentro il buio, ma fuori una grande luce.

Mi pare che la forma haiku dei tuoi primi video sia ancora presente, ma immersa in un contesto narrativo più complesso, come del resto ci raccontavi. In termini visuali, la costruzione del discorso si affida, per esempio, al lettering, alla parola scritta, al movimento come elemento cinetico, all’esperienza di quei luoghi appunto…

Come dicevo prima, Mal’aria è stata una bella prova per me. Ho dovuto far coincidere il mio stile ad una narrazione molto complessa e per farlo sono dovuta ricorrere ad alcuni escamotage, quelli di cui parli.

Ad esempio nella parte iniziale mi sono affidata a due immagini di attualità molto potenti, che avevamo appositamente scelto con Giovanni perché hanno una forte simbologia. Una è quella di San Pietro deserta, il Papa che si rivolge alla piazza vuota, “solitario ufficia Urbi et Orbi”. L’altra è l’immagine di una schiera di medici cinesi a cavallo nella neve, nel nulla, in Mongolia, accompagnati da forze dell’ordine locali per prestare soccorso alla gente del posto. Entrambe foto surreali, eppure accadeva in quel momento.

Ho sottolineato, scrivendole, alcune frasi per dargli maggior risalto. In generale volevo dare al video un non troppo sottinteso senso di malessere, di sottile paranoia.

Tutto porta in quella direzione, parole, musica, il titolo stesso scelto da Giovanni: Mal’aria, un’aria cattiva, malsana o una malattia se lo si pronuncia tutto d’un fiato. La ricerca estetica del video è subordinata al senso delle parole e al ritmo della musica, le immagini vibranti, esasperate, lo sono per un motivo ben preciso.

C’è stato un momento divertente nella costruzione del video in cui Giovanni mi ha detto che avevo esagerato nel rovinare le immagini, di trattarle un po’ meglio, così ho fatto fortunatamente. Anche per quanto riguarda la parte audio abbiamo “rovinato” di proposito alcune parti, quelle in cui la voce si abbassa e scende di qualità, con tagli sgraziati e netti.

Su sua richiesta ho registrato la voce con mezzi poco ortodossi e il risultato lo ha entusiasmato, una scelta molto punkettona che completa di senso l’intero video, giustificato ancora una volta dall’idea di mala aria.

Anche la conclusione del video è brutale, la frase “un tempo ignoto avanza” e l’immagine a colori di un cartello con su scritto pericolo di crollo, lasciano in sospeso la questione. Nessuna risposta, nessuna garanzia per nessuno. “Oggi è un altro giorno, si vedrà”

Alla luce del tuo e del vostro metodo di lavorare, cosa ti piace e ti interessa del videoclip come forma, e di conseguenza cosa non ti piace?

Mi piace soprattutto l’accostamento immagini e musica. In generale mi interessa trattare il materiale sonoro, rumori, voci, oltre che le immagini. Trovo che i due elementi insieme abbiano una grande potenza se li si accosta nel modo giusto. Uno dei miei film preferiti è Dead Man di Jim Jarmush, lo trovo geniale, ci sono momenti in cui immagini e musica si legano sfiorando la perfezione, da far venire i brividi. Mi piace la brevità, concentrare tutto nel tempo di una canzone, lo sforzo del togliere, eliminare il superfluo. Questo a volte è anche un limite, ti impedisce di approfondire un argomento. Non mi sono ancora dedicata a progetti video più lunghi, ma vorrei farlo, ora che ho affinato la tecnica della sottrazione vorrei imparare anche a soffermarmi più a lungo su qualcosa che mi interessa. Nell’era dei social è tutto velocisssimo, quando per lavoro faccio dei video commerciali il messaggio deve arrivare immediatamente, in 15 o al massimo 30 secondi. Siamo pieni di input, andiamo di corsa e non possiamo permetterci di soffermarci troppo a lungo sulle cose. Troppe immagini, troppo di tutto. Il rischio è di diventare superficiali e di non saper più riconoscere la bellezza quando si presenta.

Progetti futuri?

Molti, ma sono cauta nel dirlo anche a me stessa. Vivo questo tempo a volte con timore, altre con grande energia…farò del mio meglio

Impressioni a caldo sull’inserimento nel concorso di Asolo?

Ne sono onorata e spero di meritarlo, è una bellissima opportunità. Sono sinceramente grata a Michele e a tutte le persone che si sono soffermate e hanno compreso, tra i tanti, un lavoro così importante per me.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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