domenica, Novembre 24, 2024

My Brightest Diamond – This is My Hand: una conversazione con Shara Worden

Se dovessimo raccontare uno dei risultati più importanti della carriera di Shara Worden, potremmo riferirci senza troppi indugi alla sua capacità di rendere sempre più indistinguibili i confini tra contesti molto differenti. Una trasformazione che coinvolge la musica intesa come “Classica” o “Colta” in una dimensione molto più ampia protesa verso le arti performative, la musica pop, il mondo minimal ed elettronico e in certi casi anche quello Visual. “This is My Hand” il nuovo album a nome My Brightest Diamond che Asthmatic Kitty pubblicherà il prossimo settembre è stato anticipato da un EP uscito lo scorso quindici luglio, intitolato “No More than you“, contenente alcuni brani esclusi dal nuovo full lenght e registrati durante le solite session. La sensazione che abbiamo avuto, ascoltando questo anticipo e avendo l’opportunità di esaminare in anteprima il nuovo lavoro della Worden, è quella di un territorio sincreticamente pop dove tutti gli elementi di cui si parlava, riescono a vivere insieme in un’inedita combinazione alchemica, dalla decisa forza tribale. “This is My Hand” è un progetto nato intorno al suono delle Marching Bands di tradizione americana, le stesse che ancora tengono in piedi l’educazione musicale nel sistema scolastico Statunitense e che per Shara Worden rappresentano il cuore di un’esperienza comunitaria molto importante. A partire da questa visione, legata strettamente alla partecipazione popolare, la musicista dell’Arkansas sviluppa un discorso personale che si interroga sul valore della musica come elemento cognitivo in grado di plasmare l’idea stessa di “natura umana”, inventandosi un ibrido potentissimo tra soul e musica elettronica, minimal music e forza improvvisativa, il tutto in un contesto che suona allo stesso tempo come una vitalissima fantasia “pop”, recuperando il suono di una chitarra viscerale, dopo una separazione da quel mood lunga quanto i due album precedenti.
Della genesi di “This is My Hand”, del ruolo delle Marching Bands nella cultura popolare Americana, e di come Lady Gaga abbia influenzato  “Pressure”, primo singolo tratto dal nuovo full lenght, ci ha parlato la stessa Shara Worden in questa lunghissima e ricchissima conversazione che è di fatto la prima intervista pubblicata su un media Italiano, in previsione dell’uscita di “This is My Hand”

Prima di parlare in dettaglio del tuo ultimo album mi piacerebbe tu raccontassi ai lettori di Indie-eye qualcosa sulla tradizione delle Marching Bands negli States e come questa tradizione ha influenzato la tua musica. La traccia d’apertura per esempio, che hai anche scelto come primo singolo, comincia con un drumming potentissimo che richiama certamente la tradizione di cui stiamo parlando, ma proseguendo con l’ascolto, sembra assumere una qualità quasi “industrial”. Credo sia un approccio molto forte che ricorda due forme diverse del paesaggio e due visioni differenti sull’idea di città; che cosa ne pensi?

Sono molto attratta dalla struttura strumentale bandistica in virtù delle sue caratteristiche tridimensionali. Mi piaceva l’idea di un concerto dal suono immersivo, con il pubblico in mezzo agli esecutori. Abbiamo suonato molte volte e in molti concerti con la Detroit Party Marching Band, introducendo il set con un brano dalla qualità processionale e immersiva, che poi culminava sempre nell’esecuzione full range di “Pressure”.
Le Marching band sono ancora molto presenti nel nostro sistema scolastico pubblico, perchè suonano nei cosidetti halftime shows durante i match di football (Ndr. sono piccoli show musicali della durata di circa 20 minuti, che hanno luogo tra i secondi e i terzi quarti di una partita di football americano). Per questo molti bambini hanno ancora un buon accesso all’educazione musicale all’interno delle scuole, proprio attraverso l’esperienza bandistica. È molto presente oggigiorno l’idea che la musica sia una cosa superflua senza alcun valore per la società, perchè non è quantificabile in termini di business. Per questo assistiamo a numerosi tagli sui progetti musicali, ad eccezione delle Marching Bands, perchè amiamo tutti quanti gli halftime shows qui in America. Quello che volevo sottolineare è proprio l’importanza di questa esperienza comunitaria nel fare musica insieme, una qualità che è accessibile a tutti, non solo per chi può permetterselo o per pochi eletti. Per quanto riguarda “Pressure”, sono d’accordo sul fatto che c’è un livello d’ascolto che si riferisce per me all’industrializzazione e alla pressione che il mondo sta sperimentando in quel senso.

Sempre a proposito di “Pressure”, una delle prime esecuzioni live che hai fatto del brano era alla fine della performance allestita per l’ultimo Sundance Film Festival dove tu stessa hai diretto una Marching Band processionale; ho visto il video su youtube e mi è sembrato stupefacente; puoi parlarci di questa esperienza?

My Brightest Diamond – Sundance Film Festival 2014

È stata un’esperienza commovente, sopratutto quella per la parata del giorno del ringraziamento a Detroit dove c’erano molte marching bands e tutte le persone della comunità cittadina erano vestite con strani costumi, è stato bellissimo. Era un po’ come un evento di Halloween o una parata carnevalesca, dove chiunque, sia esso un dentista, un insegnante o un commercialista, improvvisamente si traveste e lascia uscir fuori l’elemento “freak” e bizzarro che è dentro tutti noi. Mi ha davvero commosso vedere questa varia umanità divertirsi cosi tanto e trovare una forma cosi esplicita di espressione. Questa idea di rituale comunitario, che spesso si verifica nelle parate, mi ispira davvero molto e sono felice di poter agevolare questo sentimento attraverso una banda di paese che procede per le strade, sopratutto in una dimensione improvvisativa per gli spettatori coinvolti.

My Brightest Diamond with Marching Band – Detroit, 26 aprile 2014

“Pressure” secondo me ha una ricchezza sonora molto ampia; dalla tradizione folk si passa al funk, alla musica elettronica e ad un’atmosfera, come si diceva, più fortemente “industrial”. Allo stesso tempo la sezione fiati lavora molto sul calore, in un modo che mi ricorda moltissimo il suono degli arrangiamenti di Billy Strange per Nancy Sinatra!

Ho cercato di affrontare la scrittura e la registrazione cambiando mezzi espressivi; dall’acquerello, lavorando con inchiostro e pennino, fino alla pittura ad olio. Sicuramente ci sono molti riferimenti alla Soul Music, sopratutto quando si decide di servirsi di una sezione fiati, ma potrei dirti di esser stata anche influenzata dalla musica di John Barry e anche da quella di James Brown, cosi come da quella di Quincy Jones e di Philip Glass.

Puoi raccontarci il lavoro su “This is My hand” in termini di scrittura, e se le performing arts in genere hanno influenzato il risultato. Ti chiedo questo perchè mi sembra il tuo lavoro più ricco, ma allo stesso tempo anche quello più urgente, attraversato da un’attitudine più performativa che narrativa, che cosa ne pensi?

Ho messo su la struttura portante dell’album all’inizio per me stessa, cercando di seguire alcuni principi e deviando poi dagli stessi senza puntare sempre verso un target intenzionale, ma posso dire che la genesi di “This is My hand” è sicuramente diversa dai precedenti che ho realizzato. Ho cominciato a pormi una domanda: “Qual’è il valore e l’importanza della musica?”. In base a questo interrogativo ho cominciato a leggere molto e a pensare al modo in cui le persone fanno esperienza della musica come  gruppo, per esempio in un concerto, che è il nostro concetto di tribù moderna, anche se solamente per una notte. A questo proposito ho tirato giù una lista di argomenti dal libro “The World in Six songs” (NDR. è un testo scritto dal Dr. Daniel J. Levitin che connette le neuroscienze alla percezione della musica, ovvero indaga il modo in cui l’attività cognitiva legata alla musica, sin dalle origini ha contribuito a creare la stessa “natura umana”) che racconta sei idee generali mutuate dalla musica attraverso la storia dell’umanità, come per esempio la guerra, l’amore, la religione, le canzoni politiche e via dicendo. Da questa lista ne ho ricavata un’altra relativa alle attività comunitarie che spesso mettiamo in atto durante un concerto, come per esempio battere le mani, cantare in forma dialogante con gli artisti, ballare all’unisono, insomma questo tipo di cose. A questo punto sapevo già di aver bisogno di utilizzare la sezione fiati di una Marching Band e alcuni sintetizzatori. Ho concepito molte delle canzoni contenute nell’album a partire dai tamburi, dalle percussioni e dalla batteria, pensando in termini di tempo e ritmo, quindi attraverso una forma del tutto nuova per me, e scrivendo in collaborazione con il resto della band, cosa che non avevo mai fatto. Per questo con “This is My hand” ho innescato una serie di processi definitivamente nuovi rispetto alle mie abitudini.

Mi sembra anche che tracce come “i’m not the bad guy”, “so easy”, “shape” e “Resonance” in contesti e con approcci differenti ristabiliscano un utilizzo della chitarra ritmico ed evocativo cosi come era in “Bring me the workhorse“; insomma mi pare che il risultato sia ugualmente “rock!” ma allo stesso tempo si apra verso paesaggi minimali, un aspetto che è certamente nella tua musica sin dall’inizio ma che mi sembra più radicale rispetto al passato, in virtù del tuo approccio “sincretico” alle influenze musicali…

Quando registravo e arrangiavo “Workhorse” nel 2005 non avevo incontrato i minimalisti Newyorchesi, per questo credo tu abbia assolutamente ragione quando dici che l’influenza minimalista è molto presente in “This is My Hand” in un modo mai sperimentato prima. Ho sempre considerato il secondo e il terzo album come un allontanamento dal suono chitarristico, che è il mio principale strumento, adesso, finalmente, torno ad utilizzarlo in un certo modo. Tom Waits, ma anche Samuel Barber, cosi come Bugs Bunny e la musica Jazz dei cartoni animati del 1920 hanno influenzato i miei album precedenti, adesso i livelli di influenza sono molto diversi. Meno elaborati in un certo senso.

A proposito di elaborazione, il tuo lavoro sui testi, dal primo album fino a questo, crea un mondo poetico parallelo che utilizza le parole come elementi e segni dal significato palindromo; mi pare che “This is My Hand” sia più “duro” e “radicale” del solito. Le parole hanno una qualità evocativa, fuori da riferimenti o temi narrativi specifici, cambiano di forma e significato e sembrano alludere ad una realtà prismatica (come per esempio canti in “Shape”). Parlano di “Apparizioni”, “Risonanze”; come se fossero evocazioni prima ancora che descrizioni, collocate prima della formazione stessa delle parole, in una dimensione pre-formale. Ecco, a questo proposito, sembra che la trasformazione sia un modo importante di percepire la realtà per te…

Quello che volevo fare era essere il più onesta possibile e allo stesso tempo considerare quanta ricchezza esiste all’interno di una metafora, cosi come un’immagine può contenere aspetti molto diversi per le persone che la guardano. Non volevo però utilizzare le metafore come un alibi per nascondermi dietro di esse, cosi ho cercato di lavorare sulla chiarezza, e spero senza essere stata troppo confidenziale e “diaristica” nel comunicare questa trasparenza. Personalmente ho sperimentato la trasformazione in tutta la sua pienezza per tutto l’anno scorso, una sorta di momento di formazione, e all’interno di questo processo, ho acquisito uno spirito più vicino a quello di una teenager, più giocoso, ma con l’esperienza che mi consente di giocare e sperimentare sentendomi più al sicuro di quanto non fosse quando avevo 17 anni.

Sono molto curioso di sapere qualcosa di più su un brano contenuto nel tuo ultimo album, ovvero “lover killer”, probabilmente quello più soul-pop di tutto il lotto. Perchè sei amante e Killer allo stesso tempo, e sopratutto, chi è “Lover Killer”?

“Lover Killer” è uno due brani che ho cominciato a pensare ispirandomi al tema della guerra, dopo la lettura del libro di Daniel Levitan di cui parlavamo prima. Pensavo ad un guerriero, il Killer, e al fatto di non pensare quasi mai di poterci sentire come lui, al fatto di non immaginarci mai come qualcuno che si appropria della vita di un altro. Di fatto, abbiamo la capacità di salvare le persone ma anche di ucciderle, di amare e di odiare. Siamo capaci di molte cose, quindi, invece di parlare della guerra da una prospettiva esterna, ho voluto interiorizzare questo aspetto, come a descrivere una dimensione personale capace di entrambi i sentimenti. Siamo tutti “lover killer”

Nel 2013 hai collaborato con David Lang per il suo progetto “Death Speaks”, un lavoro che ha la stessa forza spirituale di alcune composizioni di Arvo Part. Quanto quell’esperienza ha influenzato il tuo nuovo lavoro?. Non solo riguardo la musica ma anche in relazione alla voce, che in “Death Speaks” sembra un mix tra la tua creatività personale, e territori che si spingono verso le tradizioni Liederistica e Gregoriana.

In termini musicali ho usato parte del materiale contenuto nella mia opera “You Us We All” ma non direi che questo ha necessariamente influenzato il materiale di My Brightest Diamond. Per quanto riguarda “Death Speaks” è vero che tutto quel lavoro è immerso nella tradizione e nelle tecniche della musica Classica, sia per la scelta della partitura e del ritmo sia per i testi che sono mutuati da un numero enorme di Lieder di Schubert. I testi sono le parole che la morte pronuncia attraverso tutte queste canzoni che David ha collegato tra di loro per creare questo senso circolare. Una cosa molto bella perchè sono state scritte per i contributi performativi dei compositori, Nico Muhly, Owen Pallett, Bryce Dessner e per me. Tutti quanti camminiamo tra i mondi della musica classica e della musica pop.

Mi piacerebbe parlare della tua relazione con le arti visive; a partire dall’esperienza con Matthew Barney passando per quella con Murat Eyuboglu fino all’esperimento di “live soundtrack” che hai realizzato per il film muto di Buster Keaton noto come “The Balloonatic”. Con Barney e Eyuboglu, due artisti che lavorano con lo spazio e la trasmutazione, hai collaborato in forma molto complessa, diventando parte di quelle immagini con il tuo talento performativo (corpo, voce) e per “The Balloonatic” hai sperimentato la sonorizzazione di un film muto, dall’altra parte dello schermo. In tutte queste esperienze, immagino che l’improvvisazione abbia avuto un ruolo importante, puoi raccontarci qualcosa ed eventualmente le differenze che hai sperimentato?

Con Matthew Barney ho recitato e cantato. Alcune musiche per il film le ho improvvisate e poi Jonathan Bepler ha confezionato queste improvvisazioni in sezioni differenti, la musica è stata composta da Jonathan stesso, sia seguendo una partitura rigida sia lavorando sull’improvvisazione di moltissime persone, che Jonathan ha guidato attraverso il movimento delle mani e le sue mutevolissime espressioni facciali. Con Murat invece ho lavorato in forme molto diverse tra di loro, ma per “Letters to distant cities” Murat aveva scattato una serie di fotografie basate sulla scrittura poetica di Mustafa Ziyalan. Io ho registrato la mia voce proprio mentre leggevo quei poemi. Mentre registravo ho cominciato a cantarne uno tra quelli presenti nella raccolta selezionata, intitolato “The Sea”. Lo percepivo in modo maggiormente musicale rispetto agli altri, per questo ci ho tirato fuori una canzone. Dopo questo processo di preparazione  ci siamo recati nella location per le riprese, nel Maine, filmando per diversi giorni consecutivi. In quei giorni ci siamo immersi nel silenzio e abbiamo filmato nella pioggia, sulla costa del Maine. È un’esperienza che ricorderò per sempre, perchè è stato come sperimentare un momento di profonda meditazione con la natura. Se ci penso ora, molte delle temperature estreme sperimentate durante la lavorazione di “The Sea” avevano più di un punto di contatto con la pioggia e il freddo condivisi durante il lavoro con Barney. Era così freddo, e io mi trovavo la fuori, congelata e bagnata pensando “perchè mi sto facendo questo?!”. Ma dopo emerge qualcosa di diverso in relazione al confronto che ingaggi con le condizioni atmosferiche e al conflitto che si stabilisce tra il tuo corpo e la natura; cerchi allora di superare quel momento forzando te stessa a resistere e a trovare un forte coinvolgimento, attraverso il contatto totale con il freddo che in qualche modo percepisci come una grande vittoria, quando tutto sarà finito. Credo di poter dire che sia molto vicino alla sensazione che provi quando scali una montagna.  Per quanto riguarda il film di Buster Keaton, tutto era molto meno improvvisato. Ho scritto una serie di canzoni come colonna sonora per il film e le ho eseguite dal vivo diverse volte, travestendomi come Buster. Due di questi brani sono stati pubblicati all’interno dell’EP “None More Than You”  (NDR. L’ep è uscito lo scorso 15 luglio e anticipa “This is My Hand” previsto per il prossimo autunno. “None More than you”, tra gli altri brani, contiene anche “Dreaming Awake” brano registrato insieme a Colin Stetson, e remixato da Son Lux)

A proposito di “No more than you”, come mai la scelta di pubblicare due lavori differenti in un lasso di tempo così breve? quali differenze o connessioni ci sono tra i due lavori?

Beh, sono passati tre anni dall’uscita di “All things will unwind” e per realizzare questo nuovo lavoro ho scritto moltissimi brani, con la necessità di doverne escludere alcuni in fase di post produzione. Mi sono trovata con moltissimo materiale extra tra le mani, proveniente dalle stesse sessioni. Per questo abbiamo pensato di pubblicare una selezione del materiale escluso con un EP che anticipasse il full lenght in uscita a settembre. È un po’ come una piccola “fanfara” pubblicitaria per annunciare il nuovo album. I brani contenuti nell’EP hanno gli stessi principi guida di quelli contenuti nell’album, con l’utilizzo di una sezione fiati e di sintetizzatori, ma sono un po’ i “pesci fuor d’acqua” di tutte le session.

Nel comunicato stampa allegato a This is My Hand si legge di alcuni riferimenti a Lady Gaga; puoi aiutarci a trovarli? sono presenti in forma musicale, performativa, visuale, o cos’altro?! 

Per il primo singolo, “Pressure”, ho preso in prestito molte idee musicali da “Applause”. Il tempo e alcune progressioni accordali sono esattamente le stesse del brano di Lady Gaga. Sostanzialmente ho sfruttato quelle idee come un trampolino di partenza e una volta possedute, la musica mi ha portato in un luogo completamente differente. Ho scritto la canzone in un giorno e Brian ha registrato la batteria in un secondo momento. È accaduto tutto molto velocemente. A quel tempo avevo scritto la musica in stile Marching band, ma ancora non c’era il brano che definiresti come pietra angolare, quello che avevo in mente dove puoi immaginarti una banda di paese che si avvicina al palco del concerto mentre suona i suoi brani strumentali per poi unirsi a tutti i musicisti nell’esecuzione di un’unica canzone. “Looking at the sun” è stato il primo tentativo di avvicinarmi a quell’idea, ma non funzionava nella direzione che avrei voluto. All’ultimo momento ho ascoltato la canzone di Lady Gaga e mi sono detta YEAH! è quello che voglio ma trasformandola nel mio vocabolario musicale; questa è la genesi di “Pressure”.

Presto comincerà il tour di “This is My Hand”. Come sarà configurata la tua band sul palco? Il suono live di “Pressure” nel video per il Sundance, almeno da quello che ho sentito su youtube, è stupefacente. Una strana mistura tra una performance acustica ed elettronica e un’attitudine cacofonica e noise tra improvvisazione e musica contemporanea.

Ci sto ancora lavorando. Talvolta abbiamo suonato con le bande di paese locali, ma potrei pensare di ingaggiare un quintetto locale di ottoni o di suonare semplicemente con una band di tre elementi. Mi sto avvicinando in modo specifico all’utilizzo di Ableton Live, e non voglio giocare con tutte le tracce, per questo stiamo lavorando per avere un sound full range ma rielaborando tutti gli arrangiamenti, credo che sarà molto divertente. Sono ancora nella fase in cui tutto deve essere progettato. Ho scritto molta musica facendola passare dal mio cervello ai programmi di notazione o direttamente utilizzando ProTools, invece che sedermi per comporre davanti allo strumento. Adesso devo imparare a suonarli i brani. Questo significa che quando sarete tutti al mare durante il mese di Agosto, io sarò a farmi il culo!!

Verrai anche in Italia?

Lo spero davvero tanto. E se non sarà il prossimo autunno, programmeremo probabilmente un tour in primavera. Adesso ho un bellissimo figlio, cercherò di essere in tour solo per poche settimane consecutive, per poi tornare da lui appena possibile. Questo significa che i miei tour saranno un po’ più distesi del solito. Ma spero davvero di tornare nella cara Italia molto presto!

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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