venerdì, Novembre 22, 2024

Neneh Cherry – l’intervista esclusiva: Bolognetti Rocks 2015

Cresciuta fra le Svezia e New York, col free-jazz che le scorreva nelle vene, Neneh Cherry ha saputo metabolizzare al meglio stimoli creativi che giungevano da un contesto familiare quantomai fecondo. Trasferitasi a Londra appena adolescente, ha vissuto la rivoluzione punk da protagonista: prima come compagna di strada delle Slits, poi da appassionata performer nei Rip Rig + Panic.

Ancora giovanissima, sul finire degli ’80, ha intrapreso una fulminante carriera solista, importando le sonorità hip hop in Inghilterra col singolo Buffalo Stance e l’album Raw Like Sushi, e fungendo da apripista per l’ascesa dei Massive Attack. Dopo aver raggiunto il successo planetario con Seven Seconds, a fianco del senegalese Youssou N’Dour, e dopo un terzo disco (Man, pubblicato nel 1996) che l’ha vista reinventarsi ancora una volta, la cantante si è progressivamente ritirata dalle scene: a partire dalla fine dei ’90, Neneh ha drasticamente ridotto le sue apparizioni pubbliche, preferendo dedicarsi ai figli e alla famiglia.

Ma di recente, quando ormai nessuno se lo aspettava più, l’artista è tornata alla ribalta con due album ben poco inclini al compromesso: la raccolta di cover The Cherry Thing (2012), assemblata col supporto del gruppo free-jazz/noise svedese The Thing, e il nuovo exploit solista Blank Project (2014), registrato assieme al duo electro-rock RocketNumberNine. La natura radicale di queste opere ha rappresentato, di per sé, una belligerante dichiarazione d’intenti. Affidandosi esclusivamente al linguaggio della musica, la Cherry ci dimostra oggi che il suo carattere è ancora indomito, che la sua passione continua ad essere alimentata da una fiamma inesauribile.

Come l’esibizione tenuta con i RocketNumberNine al Bolognetti Rocks ci ha dato modo di verificare, la visceralità di Neneh esplode soprattutto in occasione delle esibizioni dal vivo. Sul palco l’artista si scatena: non risparmia al pubblico nemmeno un’oncia di energia e, come appare chiaro dall’ampio sorriso che le adorna il volto, si gode ogni singolo istante. Attraversando con disinvoltura le gradazioni musicali di Blank Project, la cantante passa dal lamento gospel Across the Water al beat quasi trip-hop di Spit Three Times, per poi arrivare a picchiare durissimo con la title-track e Weightless.

La rarefatta Manchild – cantata con l’asciugamano arrotolato intorno alla testa, come ai vecchi tempi – è una meritata concessione al passato, ma i deliri da dancefloor psichedelico di Dossier e Out of the Black – dilatate all’inverosimile grazie alla solidissima performance di Ben e Tom Page – riportano il concerto in territori più selvaggi. Al momento dei saluti l’artista cala l’asso, ed esegue l’immortale Buffalo Stance, aggiornata al 2015 attraverso la lente dei RocketNumberNine, ed ormai un classico a propria volta.

Nelle ore precedenti al concerto, abbiamo avuto il piacere di incontrare Neneh, intrattenendoci con lei in una lunga chiacchierata che potesse far luce sulle sue scelte passate, presenti e future. La circostanza ci ha dato modo di conoscere un’artista vera, estremamente umile e alla mano negli atteggiamenti, ma trainata da un sincero entusiasmo per la propria professione. E, fortunatamente per noi, desiderosa di raccontarsi.

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La fase più recente della tua carriera mi incuriosisce molto. Mi sembra quasi un ritorno alle origini, un recupero di quello spirito radicale che contraddistingueva i Rip Rig + Panic. Cosa ti ha spinto ad una mossa del genere?

Sì, ne convengo, i miei ultimi dischi non si possono propriamente definire easy listening! Non so, immagino che certe cose non cambino mai. Le emozioni che la musica mi trasmette sono sempre state alla base della mia attività. Anche all’epoca di Raw Like Sushi e Buffalo Stance, quando facevo musica decisamente più pop, cercavo comunque di capovolgere le prospettive, di accostare elementi differenti come il rap e il canto, di spingermi al di là dei confini stabiliti.

Poi, dopo il terzo album, ho cominciato a rendermi conto di quanto il recinto mainstream fosse limitato, starci dentro ti sottopone ad una grande pressione. Tutti si aspettavano solo che vendessi un certo numero di dischi, e il mio percorso di artista si stava riducendo ad una scalata verso il successo, tutto a scapito dell’onestà e dell’intensità della musica. Penso sia questa la ragione che mi ha spinto a non pubblicare album per così tanti anni.

Quando ho incontrato Mats Gustaffson e i The Thing sono riuscita di nuovo ad emozionarmi, la loro dedizione e il loro entusiasmo mi hanno riportato in un luogo familiare, in quei territori jazz-punk da cui provengo anche io,  è stato naturale ed è interessante, ora che ci penso, quando avevo 24/25 anni e cercavo di immaginarmi dove avrei voluto essere quando ne avessi compiuti 50, beh, pensavo esattamente al luogo in cui mi trovo adesso! Non tanto in termini di suono, quanto in termini di sensazioni.

Questo momento sta portando grande freschezza nella mia attività di musicista e cantante, non mi ritengo una cantante tecnicamente dotata, adoro cantare e sì, sono una cantante professionista, ma la qualità di ciò che faccio dipende molto dallo spirito della musica che mi accompagna, e dall’entusiasmo che questa musica mi trasmette. Quindi sì, questo momento mi riporta in qualche modo a quando cantavo nei Rip Rig + Panic, ha senso, rende tutto più facile. Adesso non mi interessa analizzare troppo quello che faccio, voglio fare musica nella maniera più spontanea possibile, un modo che, per me, rappresenta una sfida ma anche in maniera più semplice, per questo è stato interessante lavorare con Kieran (Hebden, produttore di Blank Project ed artista elettronico conosciuto col nome di Four Tet) perché sapeva sempre quando quello che stavamo suonando andava bene; è un maniaco del jazz e, anche se segue molto la musica moderna, gli piace fare le cose alla vecchia maniera, in maniera semplice.

Blank Project lo abbiamo registrato suonando tutti insieme, dal vivo e dopo ogni take lui diceva “Buona!” e io rispondevo “Cosa? Non può andar bene!”

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Ne parlavo giusto prima con Ben (Page, tastierista dei RocketNumberNine che – assieme al fratello batterista Tom – accompagna Neneh dal vivo e in studio). Sono rimasto davvero impressionato quando ho scoperto che avete registrato tutto dal vivo, in soli 5 giorni. Perché il disco suona decisamente elettronico. E, anche se i suoni sono molto crudi, pensavo che fosse stato assemblato su un computer e “sporcato” solo in seguito. Sono in molti, al giorno d’oggi, ad utilizzare tecniche del genere.

Per me è stato davvero un sollievo fare le cose in questo modo, perché non avevo pubblicato dischi per un sacco di tempo, circa un anno luce! Scrivere canzoni ha ricominciato ad essere una gioia, un toccasana. Prima di entrare in contatto con i RocketNumberNine, io e Cameron (McVey, marito e co-autore di Neneh) avevamo iniziato a sviluppare i brani del disco assieme ad alcuni produttori elettronici, giovani e talentuosi beat makers Londinesi, ma certe canzoni stavano perdendo mordente, e tutto cominciava a suonare un po’ forzato, artificioso.

L’album rischiava di diventare qualcosa che cercava a tutti i costi di suonare fico, una deriva che rappresenta il mio più grande incubo! E invece con i RocketNumberNine abbiamo costituito una vera e propria band, beh, loro lo erano già autonomamente, ma insomma, abbiamo messo su insieme questa cosa e poi c’è Kieran, che davvero non ha tempo per le cazzate!

Gli piace fare le cose a modo suo, e con autenticità. Sono certa che sarebbe stato perfettamente in grado di assemblare i beat sul suo computer, e poi di far suonare più grezzo il risultato, ma perché mai avremmo dovuto fare le cose in questo modo???!! C’è bisogno di un produttore come lui, di uno che capisce quando le canzoni sono pronte. Questo ci ha permesso di lasciarci andare, di affidarci totalmente a lui. Al quinto giorno di registrazioni ci sentivamo tutti molto sollevati, molto liberi, è lui che ci ha permesso di vivere queste sensazioni.

 

Ho letto che componi tutt’ora utilizzando un sintetizzatore Casio, che ti porti dietro fin dagli anni ’80. Sarei curioso di capire qual è il processo che, a partire dai provini abbozzati con Cameron, ha condotto alle canzoni che ascoltiamo oggi su Blank Project.

Beh, è stato piuttosto strano. Io e Cameron avevamo già le canzoni pronte, alcune le avevamo composte assieme a Paul Simm, un musicista con cui collaboriamo spesso, altre le avevo scritte io da sola sul letto, con il Casio, altre ancora le avevamo abbozzate ad Amsterdam, insieme a The Child of Lov (Martijn William Zimri Teerlinck), che purtroppo è morto tragicamente poco dopo.

Aveva un problema cardiaco congenito, insieme a lui abbiamo fatto Bullshit e Spit Three Times, durante queste sessioni di scrittura, ci eravamo dati l’obbiettivo di chiudere un brano al giorno, per non pensare troppo a quel che stavamo facendo, anche in termini di testi.

Spesso ho semplicemente preso in mano il microfono, improvvisando direttamente sulle tracce che stavamo registrando, insomma, abbiamo limato gli angoli, ma non volevamo arrivare a qualcosa di troppo definito.

Nel frattempo, io avevo in programma un concerto con i The Thing, ma all’ultimo momento loro non si sono potuti presentare, così ho deciso di contattare i RocketNumberNine.

Avevo già 12 brani che mi convincevano, a quel punto ne abbiamo arrangiati 4, e li abbiamo suonati dal vivo, e abbiamo capito che la cosa poteva funzionare.

Alcune canzoni del disco le abbiamo arrangiate tutti insieme, in studio, ma nella maggior parte dei casi io e Cameron mandavamo a Ben solo gli stems vocali dei brani, così che lui e il fratello potessero lavorare autonomamente alla musica. In molti casi Ben e Tom non hanno nemmeno mai ascoltato le musiche che avevamo composto!

Neneh Cherry – Spit Three Times – il video ufficiale

E il risultato finale si discosta molto dai provini?

In alcuni casi sì. Adesso stiamo scrivendo il nuovo disco, e continuiamo a servirci di questo metodo. Di solito mando a Ben le tracce vocali che registro col telefono, e lui ci costruisce attorno la musica.

È divertente! Ma anche Cameron è fondamentale nel processo di scrittura. Abbiamo una relazione affettiva e artistica che dura da 25 anni. Professionalmente parlando, adesso sono molto più capace di lasciarmi andare, di non lasciarmi ossessionare da ogni minimo dettaglio. Faccio un sacco di free-style in più, assemblo le parole sul momento, come se si trattasse di poesia, o di rap. Poi analizzo con Cameron quello che ho composto, perché lui è molto bravo a capire cosa c’è di buono, a tirar fuori da tutto questo materiale una canzone. Alcuni brani nascono in questo modo. Altri, come ti dicevo, li compongo in totale solitudine, seduta sul letto con il mio Casio.

Hai sempre lavorato così?

Sì… Per dirti, Manchild (da Raw Like Sushi) è stata la prima canzone che ho composto con il Casio. Ho cominciato ad improvvisare un giro di accordi, la strofa di quella canzone è piuttosto strana, è composta da sette accordi.

Mi sono appuntata la sequenza e il testo, poi sono andata da Cameron, e gli ho fatto ascoltare quel che avevo. Lui è rimasto sveglio tutta la notte, cercando di dare una struttura al brano. La canzone c’era già, ma non so spiegarlo, ha molto a che fare con quello che io e lui siamo, con la comunicazione creativa che si stabilisce fra noi.

Le canzoni fluiscono da me, ma lui ne fa intrinsecamente parte perché io non sono sempre capace di finire quello che comincio, ho un milione di pensieri e idee che mi attraversano la testa in continuazione, insomma, parliamo lo stesso linguaggio e siamo complementari, lui porta a termine le mie storie.

A volte ho in mente qualcosa, e lui la interpreta in maniera completamente diversa, dandogli una prospettiva che può essere anche molto più interessante della mia, altre volte invece mi impunto, lui prova a cambiare qualcosa, ma io mi oppongo… insomma, non funziona sempre allo stesso modo, il mio processo compositivo si evolve con il tempo, ma diciamo che in questo momento mi sento a mio agio con la possibilità di essere libera, e ho accettato che le imperfezioni possano essere interessanti tanto quanto la perfezione.

Cosa mi dici dell’unico tuo originale presente su The Cherry Thing, Cashback?

Quella è una delle canzoni che ho composto con il Casio!

Dato che The Cherry Thing è composto quasi esclusivamente da cover, mi chiedevo se Cashback non rappresentasse un esperimento, un primo tentativo di avvicinarsi nuovamente alla scrittura dopo tanto tempo, per vedere come andavano le cose…

La verità è semplicemente che all’epoca avevo quella canzone pronta. Quando ho cominciato a lavorare con i The Thing, sapevo che non avevamo molto tempo a disposizione. Dovevamo trovare velocemente un punto d’incontro, quindi ci siamo orientati su canzoni che potessero far parte di un background comune. Punk e Jazz. Ci sono anche cose molto soft sul disco, persino un brano di mio padre (Golden Heart, di Don Cherry). Quindi non stiamo parlando solo di musica brutale. Ma volevamo fare qualche originale. Io avevo pronta Cashback, e Mats Gustaffson (sassofonista e bandleader dei The Thing) aveva Sudden Moment. Così le abbiamo usate. Nessun piano, avevo solo una forte urgenza di scrivere. Così mi sono seduta sul letto con il Casio, e ho scritto Cashback.

Ho visto un tuo live incredibile con i RocketNumberNine, in cui riprendete Buffalo Stance, stravolgendola completamente. Fate anche altre canzoni del tuo primo periodo?

Stasera facciamo Manchild. In questo periodo suoniamo anche Woman, ma non l’abbiamo provata da quando eravamo in tour in Australia, quindi non so se la faremo.

Neneh Cherry & RocketNumberNine – Out of the black (Live @ Conrcrete, London)

E come approcci i tuoi classici con loro?

Cercando di non pensare a quelle canzoni come a dei classici! Ben e Tom sono già abbastanza sotto pressione all’idea di mettere mano a quei brani. Ma il bello delle canzoni è che puoi arrangiarle in mille modi differenti. Era importante riuscire a fare qualcosa che non suonasse nostalgico, riuscire a portare quei brani dove siamo adesso. Mi diverto molto a suonarli dal vivo. Quando abbiamo deciso di fare Buffalo Stance (il primo fra i vecchi brani che abbiamo ripreso in mano) non ero certa di cosa ne sarebbe venuto fuori. Mi dicevo: non sarà un po’ troppo scontato? Ma ora penso che commemorare sia legittimo. Quello che siamo adesso è Blank Project, ma anche quei brani fanno parte della mia storia, tutto sommato.

Ho letto una tua intervista, in cui raccontavi il rispetto e la devozione con cui erano trattati i musicisti free jazz in Svezia, nel periodo in cui vivevi lì da bambina. Mi chiedevo se la libertà compositiva che hai riscoperto di recente, non abbia in qualche modo a che fare col tuo ritorno in patria. Cosa ti hanno lasciato in termini musicali Stoccolma, Londra e New York, le tre città in cui hai vissuto?

Tornare in Svezia è stato difficile, perché da ragazzina me n’ero andata proprio per liberarmi di tutte le restrizioni che quel luogo comportava, per allontanarmi da quella mentalità così rigida e conservatrice. Ma ciò che ho trovato, tornando indietro, è stata una parte importante di me stessa, quella che adesso sono in grado di definire “svedese”. Musicalmente parlando, la tradizione folk svedese è molto malinconica. L’accezione tragica della melodia è evidente ancora oggi nella musica pop svedese. Penso a cose come Robyn (guest vocalist su Blank Project, nel brano Out of the Black)

A Stoccolma ho passato un sacco di tempo da sola, e credo di aver esplorato a fondo questa malinconia, avevo bisogno di farlo. Questo mi ha portato anche ad entrare in contatto con la nuova generazione di musicisti svedesi, che ovviamente non potevo conoscere quando vivevo a Londra. Ancora oggi, la scena sperimentale di Stoccolma è molto interessante. Non sono dei puristi del jazz, ma sono autentici. Coetanei dei miei figli, che stanno portando il jazz in nuovi territori, senza cercare di emulare cose già fatte. Quando sono arrivata a New York la scena hip hop era preponderante, mentre a Londra, nello stesso periodo, c’era ancora ampio spazio di libertà in termini espressivi. Si ascoltavano le cose provenienti dagli Stati Uniti, ma anche il Raggae e la cultura caraibica erano molto forti. Credo che fosse un effetto collaterale del punk.

Perché il punk ha aperto molte strade.

Infatti. E molti dei musicisti dell’era punk, penso al Pop Group, ai Rip Rig + Panic, erano grandi appassionati di Jazz, ma ascoltavano anche Raggae, e dunque erano influenzati dalla tradizione delle Indie Occidentali. Per questo, solo quando mi sono trasferita a Londra ho sentito che avrei potuto diventare davvero me stessa. Però a New York credo di aver imparato molto sulla vita.

Beh, lì hai incontrato alcuni fra i migliori musicisti di sempre…

Sono tornata lì di recente per i funerali di Ornette Coleman. È stato incredibile, sembrava la riunione di un clan, che seppelliva il proprio patriarca. C’erano Pharao Sanders, Sonny Rollins, tutte le facce che ricordavo dalla mia infanzia, è stato molto forte.

Cosa puoi dirmi del nuovo album che stai facendo assieme ai RocketNumberNine?

Ancora non molto, a dire il vero! Sta succedendo in questo stesso momento, quindi non so ancora esattamente di cosa si tratterà. Sai, Blank Project suona un po’ “goffo”, perché noi tre ci conoscevamo solo da poco, e non avevamo ancora sviluppato la nostra relazione, stavamo cercando di trovarci. Il primo concerto insieme lo abbiamo fatto a Gennaio, e a Marzo stavamo già registrando il disco! Posso dirti che questo album rifletterà il punto a cui siamo arrivati, ma anche la direzione in cui stiamo andando. Come tutti gli altri dischi tratterà una serie di storie, di osservazioni sulla vita.

Hai idea di quando pubblicherete?

Credo all’inizio del prossimo anno, sono un’ottimista! Ma è già un po’ tardi a livello di programmazione. Stiamo componendo, e abbiamo affittato uno studio a Berlino dove assembleremo i brani, provando insieme per qualche settimana. Collaboreremo nuovamente con Kieran, ma ci piacerebbe portare anche qualcun altro all’interno del progetto. Forse Tyondai Braxton, Vedremo che cosa succederà; nuove avventure!

Neneh Cherry live @ Bolognetti Rocks, Bologna, 10/07/2015

setlist:

– Across the Water
– Spit Three Times
– Blank Project
– Weightless
– Bullshit
– Manchild
– Everything
– Dossier
– Out of the Black
– Buffalo Stance

Neneh Cherry sul web

Un ringraziamento Speciale a Greg Phillips di Republic of Music, Joanne Young tour co-ordinator, Cameron Mcvey e Theo Nomad e Silvia Butta Calice di Vivo Concerti per la loro cortesia e disponibilità. Senza di loro questa intervista non sarebbe stata possibile

Federico Fragasso
Federico Fragasso
Federico Fragasso è giornalista free-lance, non-musicista, ascoltatore, spettatore, stratega obliquo, esegeta del rumore bianco

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