[I New Order hanno suonato al Lucca Summer Festival il 12 luglio 2019, in un “double bill” condiviso con gli Elbow. Leggi la recensione dello show della band di Manchester guidata dal carismatico Guy Garvey]
Grandi fasci di luce azzurra e radente sondano lentamente la platea di Piazza Napoleone. L’illuminazione è ancora al minimo, mentre il grande pannello che sovrasta il palco invia le immagini di una fantasia globulare in scala di grigi. Cosmogonia digitale lanciata verso l’infinito insieme al mi bemolle del “Vorspiel” che introduce l’Oro Del Reno Wagneriano. Una dimensione in crescendo, ma che allo stesso tempo ci racconta la circolarità degli eventi, proprio quando le immagini sullo schermo panoramico diventano più chiare ed emergono i corpi filmati nel 1936 da Leni Riefenstahl per gli ultimi minuti di Olympia, mentre si tuffano nel vuoto per rimanerci, grazie ad un nuovo montaggio che ne campiona i movimenti essenziali, ricombinandoli in una danza ipnotica e superumana.
Il primo di una serie infinita di innesti visuali e aurali che dialogheranno per più di un’ora e mezza con la musica dei New Order; un viaggio attraverso le loro mutazioni sonore, ma anche una piccola Storia della percezione, che nel modo più onesto e commovente possibile, consentirà di sovrapporre personale e collettivo.
“Singularity” cade dall’alto, secca come un colpo di mannaia: “We’re players on a stage / With roles already scripted“. Dei due brani prodotti da Tom Rowlands dei Chemical Brothers per il ritorno dei New Order, quel “Music Complete” che mise la parola fine ai rapporti con la Factory e con Peter Hook, è quello più vicino alla storia sonora dei Joy Division, un gesto d’affetto, un dolente commiato per i fantasmi di una vita intera che viene introdotto sottilmente, per poi diventare esplicito radicamento in quella narrazione.
For all lost souls / Who can’t come home / For friends not here / We shed our tears
L’editing sullo schermo dialoga con un sync emozionale, tra le immagini e nelle immagini stesse. La clip è quella originale uscita per veicolare il singolo nel 2015, ma viene espansa grazie alla sua provenienza cinematografica, quella dei numerosi footage in super 8 raccolti da Klaus Maeck, Heiko Lange, Jörg A. Hoppe e Miriam Dehne per “B-Movie: Lust & Sound in West-Berlin 1979-1989“, il film che racconta la scena underground attiva a Berlino est, dieci anni prima della caduta del muro.
Un bombardamento retinico violentissimo, tra luci, qualche pattern digitale e la città di quegli anni rappresentata attraverso le controculture giovanili, gli scontri e i rastrellamenti della polizia, la vita comune per le strade. L’incedere oscuro del brano sembra collidere con il grooving estremo delle immagini, quasi a calarci dentro un’atmosfera tra libertà e incubo, estasi e paranoia.
Tutto il concerto in fondo, oscillerà tra questi due stati, attraverso la dimensione fantasmatica dell’immagine analogica e quella dei motivi visuali che rappresenteranno il simulacro del viaggio, fuga (im)possibile nel mondo virtuale da quello della nostalgia. La musica dei New Order ovviamente al centro di questa tempesta immaginale, sembra chiarire una volta di più una potentissima qualità fisica, molto più ancorata alle possibilità performative, al di là del veloce scivolamento verso la synth wave, il clubbing degli anni novanta e un pastiche pop mai rinnegato, che si verificherà più volte anche durante la serata Lucchese, con una serie di citazioni divertite, parodiche e in certi casi assolutamente geniali.
Deve passare il primo doppio recupero dei Joy Division, con “She’s Lost Control” e “Transmission“, per introdurre i “titoli di testa” sovrimpressi sui visual di “Your Silent Face“, dove i nomi di tutti i New Order, scorrono sui grandi grattacieli di un paesaggio urbano splittato elettronicamente, quasi a separare le due storie e ad introdurre una full immersion senza pause nelle diverse declinazioni del dancefloor.
Difficile cogliere tutti gli stimoli visivi, gli inserti storico artistici e le innumerevoli decostruzioni del loro stesso immaginario visuale, ci basterà dire che i motivi grafici che esplodono nei due videoclip che furono realizzati per “True Faith“, vengono recuperati ed espansi come episodi autonomi, durante tutto il live. Tra questi, l’autostrada verso l’infinito che scorre durante l’esecuzione di “Plastic“, con le sue linee essenziali riprodotte in Computer Grafica e un paesaggio che lentamente trasforma le linee del percorso in un vero e proprio viaggio astrale, mentre la techno sci-fi del brano imprigiona ossessivamente la folla al ritmo e al battito.
La stessa sequenza di colori che ricorda un memory game, ma anche gli anni della disco music, proviene da quei due formidabili video. “True Faith” arriva subito dopo, e nell’effetto inno che accumuna la memoria anche dei più distratti, la clip più nota viene rielaborata in forma più ripetitiva, isolando i motivi visivi vicini alla struttura del brano, per ricordarci che l’immaginario sonoro e visivo dei Daft Punk viene proprio da quelle intuizioni. La coda, affidata ad un tribalismo house di magniloquenza orchestrale, rappresenta una delle tante sorprese dello show, nel ricombinare e trasformare più storie di una musica”deperibile” come la tecnologia che la sottende.
“Blue Monday” era già questo, nel saldare il dancefloor fine settanta con tutto ciò che si stava muovendo in ambito EDM in quegli anni; nella versione live tutto viene esasperato, incluso il potenziamento della drum machine.
Anche “Bizzarre Love Triangle“, nella sua resa decisamente più techno e ossessiva, viene associata ad una serie di forme geometriche che progressivamente si trasformano nel simulacro grafico di un paesaggio vettoriale, molto vicino all’artwork di “Unknown Pleasure” ideato da Peter Saville a partire dalla traduzione delle frequenze del segnale pulsar della CP1919. L’arte di Saville, fatta di continui ri-utilizzi, decontestualizzazioni, ri-mediazioni da un supporto all’altro, viene già assimilata da Bernard Sumner e compari nel recente progetto condiviso con Liam Gillick, dove l’intero percorso della band rinasce attraverso una sinfonia tra synths e visual.
Diverso e più comunicativo rispetto a “∑(No,12k,Lg,18Ogr) New Order + Liam Gillick: So it goes…“, lo Show Lucchese mantiene la stessa viralità del linguaggio, disseminando tracce ovunque e scoprendo nuovi mondi, visivi e aurali, a partire da una storia che è diventata anche “meme”, come nel caso legato al motivo grafico di “Unkown Pleasure”.
Cosa era e cosa è adesso quel paesaggio?
Un segnale, un battito, l’origine di un suono, un piccolo segmento di terra visto dalla luna.
“Temptation” rappresenta l’apice di questa arte dell’innesto. Ellitticamente, come accade da qualche anno a questa parte durante i concerti dei New Order, il brano si apre e si chiude con il campionamento del violoncello di “Street Hassle” di Lou Reed, una riscrittura che dilata il brano e ci regala l’esperienza visuale più bella di tutto il concerto. La mirrorball che sovrasta il palco viene inquadrata con un teleobiettivo dalla regia video e sovrimpressa “live” sui motivi visuali proiettati. La strada, motivo ricorrente per tutto il set, la accoglie come oggetto non identificato su paesaggi desertici filmati “dal vero”, ma anche su una fulminea schermata di “Outrun“, l’Arcade Game del 1986 prodotto dalla SEGA e inventato da Yo Suzuki su ispirazione dell’edonista “La corsa più pazza d’america“, il film di Hal Needham ormai solo nella memoria di chi ha vissuto davvero gli anni ottanta, incluso tutto il peggio.
In questa incredibile stratificazione di elementi che rappresentano i segni sonori e visivi della cultura club, di quella videoludica, della nostalgia analogica, tra radio e audiocassette sovrapposte in una fantasia wharoliana sui relitti inservibili della società dei consumi, a un certo punto un occhio si spalanca sulle grandi arterie stradali filmate dall’alto, come fossero vene dove scorre un liquido ematico fatto di colori, metallo e velocità.
Noi: sopra, sotto, dentro queste immagini che ci inglobano e ci sputano fuori
1-2-3-4. Tutto viene ricondotto all’esplosione ritmica dell’innno, con un sync perfetto tra folla, ritmo e quello che vediamo sul panoramico, quattro numeri in sequenza che ci indicano l’esplosione imminente dopo il countdown.
L’encore interamente dedicato ai Joy Division, diventa il completamento del viaggio dentro questa dimensione culturale dove è difficile distinguere la malinconia dal divertimento, il terrore dallo stupore, l’alienazione dai nostri processi identitari.
“Atmosphere” viene introdotta dal campionamento dei primi minuti di “Cat People“, il brano prodotto da Giorgio Moroder e interpretato da David Bowie, nella versione scritta per la colonna sonora del film di Paul Schrader, diversa da quella inclusa successivamente all’interno di “Let’s Dance”, quasi ad amplificarne la dimensione rituale.
I visual alternano le foto di Ian Curtis a tutto schermo con il video che Anton Corbijn realizzò in Spagna dopo la morte del cantante e autore mancuniano. Un gruppo di monaci incappucciati, interpretati da alcuni bambini proprio per esasperare i rapporti tra i piani della visione, trasportano alcune grandi stampe fotografiche della band e i ritratti dello stesso Curtis.
Tutto per introdurre “Love will tear us apart“, mentre il vinile di “Closer” gira nel vuoto, come la formazione globulare vista all’inizio del concerto. In questa strana formazione di un universo collettivo e personale, “Joy Division Forever” è l’unico verbo da ricordare, prima che il segno “+” a tutto schermo venga corrotto da un segnale di frequenza.
In quell’ideogramma, un cuore che ancora batte.