Quando Kurt Cobain contatta Anton Corbijn, il regista olandese aveva già realizzato i video più famosi degli anni novanta per i Depeche Mode, “One” per gli U2 e tutta una serie di prodotti per la grande industria. Cobain però gli rivela di aver amato il lavoro fatto con gli ultimi Echo & The Bunnymen, quelli del quarto e del quinto album, appena prima lo scioglimento. Se si guarda con attenzione “Seven Seas“, girato per promuovere “Ocean Rain“, non è difficile rintracciare una linea molto precisa che conduce fino ad “Heart-Shaped Box” e che indica una delle ossessioni principali di Corbijn nel rielaborare l’immaginario del cinema delle origini attraverso vari elementi, che includono la fotografia still life, la relazione tra immagini analogiche ed elettroniche e un nuovo territorio di passaggio che gli consenta di traghettare i segni del protocinema e di quello classico, nella dimensione di una video-arte catodica di consumo.
Per il video di “Heart-Shaped Box”, la ricerca di Corbijn si sposta verso il Technicolor e quando scopre di non poter riprodurre lo stesso processo, perché il brevetto è stato venduto ai cinesi, si avvicina alla tendenza televisiva emersa nella seconda metà degli anni ottanta che ritrasmetteva i classici del cinema statunitense sottoposti a colorizzazione computerizzata.
Del “nuovo vandalismo Hollywoodiano“, come l’aveva definito Roger Ebert, Corbijn cerca gli aspetti più creativi, intercettando la valenza combinatoria del processo. Gira quindi a colori, opera un successivo trasferimento in bianco e nero ed invia il risultato in Messico per far dipingere a mano un fotogramma alla volta.
I riferimenti visuali e gran parte della sceneggiatura furono opera di Kurt Cobain; Corbijn si trovò di fronte ad un artista consapevole e in grado di determinare le scelte più importanti prima di allestire il set. Le aggiunte e i contributi diretti del regista olandese, oltre all’estetica visuale del contenitore, si limitarono all’idea dei corvi meccanici appollaiati sulla croce e all’angelo “oversize” con gli organi interni in rilievo, direttamente ispirato all’artwork frontale di “In Utero“.
In realtà, il concept desunto da un manichino anatomico trasparente e messo insieme dall’art director Robert Fisher, era già l’adattamento di un’idea dello stesso Cobain, a conferma di una centralità inevitabile dell’artista di Aberdeen nell’assemblare il suo progetto più sofferto.
Difficile stabilire chi avesse ragione nella controversia per violazione del diritto d’autore che vedeva Kevin Kerslake contro i Nirvana, a quanto pare risolta in sede extragiudiziale. Il regista statunitense che aveva diretto tra le altre cose alcuni video per i Sonic Youth e tre per i Nirvana, a partire da “In Bloom“, rivendicava la paternità delle idee e il primo ingaggio per la realizzazione di “Heart-Shaped Box”: ″Una giovane ragazza nata in una famiglia del Ku Klux Klan, una stanza piena di fiori, campi di papaveri, una foresta di alberi nodosi, un personaggio simile ad uno spaventapasseri e un vecchio su una croce. ″ Questi gli elementi costitutivi del soggetto che Kerslake disse di aver pensato per il video, attraverso le dichiarazioni del suo ufficio legale, rilanciate da AP News l’11 Marzo del 1994.
In poco meno di cinque minuti, il concept dell’album definito da Cobain come “Sex and woman and In Utero and vaginas and birth and death” viene sdipanato da una serie di bozzetti di ascendenza pittorica che coinvolgono simbologie personali e biografiche, politiche e religiose, iconiche e di consumo, in un cortocircuito tra formato mainstream e violenza grafica. Ovunque fioccano interpretazioni allegoriche di scarsa qualità che cercano una relazione quasi figurale tra il livello testuale e il suo compimento in una dimensione mitica, mentre l’interesse del video risiede nella convergenza tra segni e testi di diversa provenienza, a partire dal dialogo tra liriche e immagini, in un intreccio che non è mai binario e genera ogni volta nuove associazioni.
Gli interventi di Corbijn sul colore e sull’allestimento del set avvicinano “Heart-shaped Box” a quella cannibalizzazione della storia delle immagini che il talentuoso fotografo aveva già sperimentato con i Propaganda, incorporando tra le altre cose, una versione degenerata del “Mago di Oz” di Victor Fleming, girato in Technicolor nel 1939 e ormai infinitamente ri-quadrato dal broadcasting televisivo.
Cobain plaude al lavoro di Corbijn definendolo come un’incredibile fotografia di ciò che transitava nella sua mente, mentre saranno molti ad appropriarsi di quel flusso di coscienza in più di un’occasione, inclusa naturalmente Curtney love.
In realtà transita anche nella nostra coscienza come immagine del contrasto, dis-illusione ancora pulsante, in quello scontro tra “teenage drama” e cultura pop, mercato e verità, racconto televisivo ed esperienza quotidiana, prima che l’ipostasi del vero, tra necrologi e necrofilie, diventasse un falso positivo.