Con il cappello e il suo basso Fender tra le mani, Marcus Miller è pronto a cominciare, a sfidare il pubblico, a travolgerlo.
Ogni volta è un viaggio in cui sondare le innumerevoli forme musicali che continua a esplorare. Laid Black, il suo ultimo album, affonda le radici nel presente, nell’universo urbano con una commistione hip-hop, trap, soul, funk, R & B e jazz. Trip Trap porta alla ribalta Russell Gunn con la tromba e le linee soliste del basso di Miller intricate e piene di energia. Ma poi si torna indietro, come se potesse riavvolgere il tempo, Untamed, brano tratto dal precedente disco, Afrodeezia, fa brillare il sassofonista Alex Han che attira su di sé gli sguardi increduli della folla. C’è un magnifico equilibrio tra gli assoli e le melodie che dimostrano l’abilità, la complicità e l’esplosiva tempra di tutta la band.
Ma è la versione di Preachers Kid, con Miller al clarinetto accompagnato solennemente dai fedeli Gunn, Han e Williams a commuovere il pubblico, dopo aver commemorato la recente morte di suo padre, condividendo alcuni ricordi e aver espresso la sua gratitudine per i momenti passati insieme.
Scende la luce, cala il buio e con l’eleganza che le è propria, fa il suo ingresso al pianoforte Norah Jones. Impeccabile, con una collana di frange che le scende sull’abito ci catapulta in un’atmosfera altra. All’improvviso è come essere in quel piccolo club ricostruito da Woody Allen in Midnight in Paris. La sua voce meravigliosamente roca, sa entrare in profondità e farti venire i brividi.
Ma iersera è successo qualcosa, quell’inflessione sdegnosa e latente con cui ha dimostrato di saper cantare qualsiasi cosa, e la naturalezza con cui sa farlo, si è incagliata su quel palcoscenico gigante di Piazza Napoleone. I tre musicisti che le ruotavano attorno erano confinati in una piccola porzione di spazio, il suono arrivava ovattato alle orecchie del pubblico.
Questa signora che quindici anni fa firmò con la Blue Note Records, leggendaria etichetta jazz che ha distribuito anche l’ultimo disco di Marcus Miller, era un outsider che fondeva il suono jazz ai ritmi country folk, e lì è sembrata voler tornare.
Day Breaks con cui ha aperto abbraccia un’atmosfera fosca, se non malinconica, simile ai dischi di Billie Holiday che probabilmente la cantautrice americana ascoltava da bambina. Per poi passare a Do not Be Denied, uno dei brani meno noti di Neil Young, reinterpretato con una sensuale sensibilità. Era difficile comprendere se Norah Jones si sentisse in una comfort zone, ma con la chitarra elettrica in mano, davanti alla platea ha avuto la capacità di sciogliere i cuori con un’interpretazione rallentata di Lonestar e Sunrise.
Nel finale torna all’album di esordio, Come Away With Me, per congedarsi da un pubblico che solo a tratti si è dimostrato davvero partecipe, era facile perdere l’attenzione, Norah stessa ha ammesso di non essere una grande interprete dal vivo, ma se davvero non distogli lo sguardo ti accorgi come possa trafiggere le tue difese in pochi secondi.