Brendan Dawes è da alcuni anni che esplora possibilità di algoritmi e modelli statistici nell’interazione con le macchine. Machine learning puro che gli consente di applicare i principi generativi a svariate forme di arte figurativa. Non manca una componente materiale, che rappresenta spesso il prodotto finale delle sue ricerche, quasi per assegnare al regime digitale le qualità di quello tattile.
In termini audiovisivi ha spesso operato delle sintesi cinematiche partendo da un concetto non dissimile dalla Camera Stylo di Astruc, immaginandosi la portabilità dei dispositivi coevi e le possibilità di moltiplicare il punto di vista da angolature impensabili, come una nuova onda rivoluzionaria che riecheggia l’entusiasmo di quella francese degli anni sessanta.
L’incontro con Gary Hustvit, documentarista e filmaker interessato alla storia del design, ha dato origine ad un lavoro ibrido ispirato alla prassi compositiva di Brian Eno e realizzato dando in pasto alle macchine centinaia di ore tra musica, interviste e video originali mai visti, legati alla lunga carriera dell’artista inglese, celebrato quest’anno alla Biennale Musica 2023.
Inaugurato in prima assoluta con l’approccio di un’installazione lo scorso 22 ottobre nella Sala D’Armi E dell’Arsenale a Venezia, il video proiettato frontalmente su grande schermo, sarà visibile fino al 29 di Ottobre nelle fasce orarie dalle 10 alle 18. Non smetterà di girare in questi giorni di programmazione, perché la durata complessiva è di 168 ore sottoposte a continua mutazione. Si può quindi entrare e uscire in qualsiasi momento, oppure consumare una maratona continua di otto ore facendosi assorbire dall’ipnosi di questa casualità combinatoria.
Introdotti da Lucia Ronchetti, direttrice della Biennale Musica 2023, Dawes e Hustvit hanno spiegato il loro lavoro con i materiali, distinguendo Nothing can ever be the same dall’imminente documentario dedicato a Eno, che lo stesso Hustvit sta realizzando. Fonti, informazioni e materiali sono comuni, ma cambia radicalmente l’esito. Ronchetti ha parlato di applicazione dei parametri sonori che hanno costituito l’ossatura del lavoro compositivo di Brian Eno, all’intero apparato visivo della video-installazione; se per Eno la musica registrata è un immenso archivio di frammenti sonori, ma anche illimitata palette acustica disponibile per i compositori, Dawes/Hustvit, operano una messa in abisso di questo mondo creativo, realizzando una ricca tavolozza di suoni e immagini che siamo chiamati a percepire e interpretare per un’inedita convergenza tra creazione artistica e automazione digitale.
La tecnologia, ha aggiunto Hustvit, è libera di scorrazzare tra la documentazione video dedicata a Brian Eno, che ammonta a circa 500 ore. C’è quindi spazio per interviste e materiale istituzionale, ma emergono anche i video che Eno stesso ha realizzato a New York nei primi anni ottanta.
Ostile alle forme del cinema tradizionale, Hustvit rivendica quindi una specifica concezione di durata che non sia incapsulata nello spazio definito dai confini narrativi. Il suo film cambia costantemente e imbocca direzioni inaspettate anche per gli autori. Un desiderio creativo che spinge l’opera verso una direzione radicalmente performativa. In termini realizzativi è quindi il contributo di Dawes a consentire questa morfologia. L’indeterminatezza combinatoria è quindi alla base del progetto tecnico di ricontestualizzazione dei frammenti, non sappiamo cosa vedremo oggi quando accenderemo il video. Il che è contemporaneamente terrificante ed emozionante, ha detto Dawes.
In termini empirici, come spettatori critici, abbiamo visto quasi due ore di film e la macchina al lavoro sembra elaborare una serie di istruzioni algebriche per generare svariate moltiplicazioni della matrice. Per matrice intendiamo un effetto che in termini scopici risulta come la moltiplicazione di una o più immagini nella forma di un grande split-screen, costituito da moltissime cellule. Queste possono essere in sincrono oppure no, e se si esce dalla lettura necessariamente frontale della cornice, generano altre forme, come se fossero pixel di un contenuto più grande.
Il suono stesso può scomparire ex abrupto, de-sincronizzarsi, fondersi tra parola e repertorio discografico e reagire con sinestesie imprevedibili, insieme ai movimenti della matrice, glitch inclusi.
Il difetto è evidentemente contemplato e forzato da alcune varianti del calcolo, ma tocca affidarsi ad ipotesi intuitive per essere analitici.
Ciò che conta è quindi perdersi in questo continuo affastellarsi di immagini, ricombinate da una logica casuale che a tratti diventa dialogo tra luce, colore, forma e suono, nella direzione di una vera e propria musica cromatica riletta attraverso i dispositivi del digitale.
Crediamo non sia casuale il settaggio della macchina in questi termini, perché recupera in fondo le intuizioni di quella storia del Novecento da cui lo stesso Brian Eno è partito. Impressioni, rotture, difetti del sistema che scendono a patti con il caso e inglobano quindi musica, ma anche silenzio e rumore.
Non può non venire in mente la ricerca di Bruno e Arnaldo Gianni Corradini, le animazioni di Oskar Fischinger, Len Lye, ma anche Wharol, da cui Eno stesso ha desunto alcune intuizioni sulla durata, in termini più strettamente contemplativi.
Rimane da considerare se è più emozionante la nostra relazione con le infinite possibilità combinatorie macchiniche, di cui osserviamo tutte le evoluzioni formali, o se fosse invece più intenso esser costretti a mettere sottosopra il nostro vecchio G.B.C. a tubo catodico, per affondare nell’acquario verticale di Thursday Afternoon.