Correva l’anno 2010 quando Will Wiesenfeld saltava da un progetto all’altro, abbandova il moniker di Post-Foetus, incideva The Fabric segnando la fine di un corso con un album sostanzialmente pop per inaugurare di li a poco il progetto Baths che vede la luce su Anticon records il luglio dello stesso anno con un full lenght di debutto intitolato Cerulean, dove il pop sperimentato fino a quel momento da Wiesenfeld cominciava a macchiarsi di beat elettronici, hip-hop, come nello stile contaminato dell’etichetta Americana, e procedeva con un brillante e luminoso songwriting. Obsidian, la nuova uscita come Baths a tre anni di distanza da quella prima raccolta di canzoni ci consegna un autore decisamente più maturo, con un’idea dell’insieme molto più precisa e una maggiore propensione a strutturare la parte melodica rispetto agli assalti ritmici; Obsidian spinge sullo sfondo tutto l’armamentario tipico delle produzioni Anticon, esalta l’elemento compositivo in senso più classico, ma a differenza del suo precedessore, introduce una malinconia letale; come da titolo è un album difatti oscuro e mortuario.
Al di là del tono generale, basta ascoltare un brano come Ossuary, per rendersi conto del gioco, pop-rock di matrice indipendente, lanciato su una base ritmica ostinata, melodia circolare e un lavoro sulla tessitura sonora tra l’oscurità e il sogno, si avverte un dulcimer, come nelle colonne sonore britanniche degli anni ’60 (Laurie Johnson, John Barry), il beat è spezzato, disumano, le tastiere disegnano un tappeto dark wave, ci si muove tra atmosfere cathcy e qualcosa di molto più disturbante, e Wiesenfeld canta versi come “I have no eyes, I have no love, I have no hope“, disperata condizione di cecità rispetto al nostro tempo, che torna in altri brani dell’album (la nenia terribile e terroristica di No eyes, per esempio).
Ma al di là di quello che in fondo è la scelta di un “tono” o di un “mood” se si preferisce, Obsidian ha una concisione e coerenza sorprendenti, tipica delle migliori raccolte di musica pop, è ispirato, ben composto, e allo stesso tempo trainato da un’anima dance potentissima, come in Miasma Sky, suoni casio e una glitch-tronica di classe e quel falsetto che è marchio di fabbrica del musicista californiano e che per certi versi ricorda, anche nella complessità della tessitura elettronica che mantiene una strana anima folk di sottofondo, l’ultimo Sufjan Stevens ovviamente senza raggiungere quelle intenzioni contemporaneistiche e destrutturanti.
Ma se le intenzioni di Wiesenfeld erano quelle di catturare l’ascoltatole in un canto ammaliante per poi sferrare un attacco mortale, il risultato è davvero quello e si verifica nella progressiva claustrofobia dell’album, ritmicamente sempre più teso e inesorabile (Phaedra), con la voce che perde la forma suasiva del falsetto per sembrare sempre più vicina ad un lamento disperato nel pop-jazz della straordinaria No Past Lives, brano immerso in suoni che sembrano la lotta tra organico e inorganico dei Matmos più “porno”. Un’oscenità che torna nei lamenti animali che introducono Earth Death, vera e propria marcescenza apocalittica della terra, brano che dopo un’intro come questa, attacca con lo sferragliamento terribile di un territorio post-industriale, quasi a dirci che nel corso dell’album, il pop di Wiesenfeld si è trasformato in qualcos’altro; era forse necessario chiudere con la coralità di Inter, visione luminosa, dopo il sangue dell’apocalisse, quasi provenisse da una chiesa senza pareti e senza più culto.
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