domenica, Dicembre 22, 2024

Ought – Sun coming down: la recensione

Men for Miles introduce il nuovo lavoro dei canadesi Ought in uscita per Constellation ad un anno esatto di distanza dal precedente More than any other day e lo fa sotto il segno di uno strano omaggio a Lou Reed, come se fosse stato ingaggiato dai Sonic Youth più cazzoni, quelli di Master Dik o dello split condiviso con i Mudhoney, tanto per intendersi. La voce di Tim Darcy sembra essere ancora più aderente ai modelli di quella No Wave che dalla lezione di Reed/Cale aveva mutuato una propria estetica, tanto che la musica dei nostri da un certo punto di vista può essere considerata come un compendio di storia newyorchese contaminato con la ricerca sonora del rock anni novanta, tra hardcore fatto con lo stomaco e quello declinato attraverso il cervello, basta ascoltare la coppia Passionate Turn / The Combo, due brani molto diversi ma che allo stesso tempo incorporano questa doppia impostazione al loro interno; la seconda in particolare mantiene una sporcizia garage che sposta la percezione dalla parte degli Stooges, sopratutto per la forma ossessiva e trainante del brano.

Eppure, all’interno di un’approccio che potremmo definire post-punk ma anche proto-punk, gli Ought suonano ancora freschissimi, proprio per la capacità di combinare queste suggestioni e farle dialogare tra di loro. È il caso di The Combo e Celebration, forse le tracce più drammatiche e oscure anche rispetto al mood del primo album, tese a recuperare la forma scarna e tagliente dei primi Fall, background che era certamente presente nel primo lavoro della band, ma che qui trova una forma sincretica davvero eccezionale.

Tra tutte, emerge Beautiful Blue Sky, trascinata per otto lunghi minuti, dove il lamento di un violino alla John Cale (Tim Keen) rimane sullo sfondo mentre l’incedere ossessivo condivide un territorio di confine tra i Velvet e il post rock, tappeto adatto alle liriche di Darcy fatte per agganciare e agganciarci ad un groove schizoide e allo stesso tempo perturbante, capace di far emergere quei contrasti tipici della scrittura del frontman canadese: “I am no longer afraid to die…/ and I’m no longer afraid to dance tonight“, quasi fosse quel posizionarsi tra gioia e noia nella banalità sempre uguale della vita contemporanea per come viene descritta in alcune pagine di David Foster Wallace.

E l’indolenza degli Ought ci sembra che occupi proprio questo stato di passaggio; quando coinvolgono e si abbandonano al ritmo lasciano la presa e diventano oscuri, quando sono drammatici, la forma ossessiva dei brani trascolora dal cupio dissolvi a suoni più meditativi, quando il capitalismo ci uccide è possibile ballare, quando la sezione ritmica diventa cronometrica arriva quasi sempre un’interferenza, un’anomalia, una frequenza che disturba l’assetto geometrico del brano, riportandoci dalla matematica alla verità.

Si, alla verità, perchè gli Ought, con il loro “debito” non riconciliato nei confronti dei primissimi Talking Heads , deturpati attraverso mille altre cose,  alla schizofrenia contrappongono un’ansia di vita davvero sorprendente.

Ugo Carpi
Ugo Carpi
Ugo Carpi ascolta e scrive per passione. Predilige il rock selvaggio, rumoroso, fatto con il sangue e con il cuore.

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