Abbiamo incontrato Paolo Benvegnù a Bologna, prima dello show case all’Art Rock Museum di Palazzo Pepoli, per scoprire la storia tessuta in H3+, dentro e al di là della fascinazione della musica. Intorno a noi le installazioni dedicate a Corto Maltese sembrano costruite apposta per ospitare la conversazione che ha per oggetto il viaggio di un altro esploratore, Victor Neuer, protagonista del nuovo album del cantautore.
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[Le foto sono di Gabriele Spadini ]
Indie-Eye: Con Hermann ci hai abituati ai giochi di parole e alla ricerca di indizi nelle tracce e nei titoli dei tuoi album. Victor Neuer è Colui che trionfa sul nuovo o Colui che nella Vittoria si rinnova?
Paolo Benvegnù: Ogni storia deve avere un protagonista, giusto? Il protagonista attraversa la storia, cambia vivendola e, vivendo, cambia la Storia stessa. Victor Neuer è Colui che nella Vittoria si rinnova, una Vittoria che ha conosciuto la perdita e la disintegrazione, le ha esplorate fino a trovare la via di risalita per arrivare a nuova nascita. Nel disco ho tentato di raccontare questo cambiamento. L’ho immaginato come un soggetto cinematografico, perché tutto parte sempre da una visione e poi l’ho trasposto nella maniera che mi è più congeniale, raccogliendo i brani della colonna sonora che sono emersi da questa imago. In realtà ho scritte molte più tracce di quelle che sono poi entrate a far parte del disco, sono stati i mie compagni di viaggio, a cui le ho affidate, a guidarmi nella selezione che è poi la musica emersa nell’album.
Indie-Eye: E’ così che è nata l’idea di H3+?
P. B.: Sì, dall’immaginazione scaturita da una piccolissima intuizione. Come sempre, come tutti, “vivo di intuizioni” ma a queste intuizioni cerco di dare spazio e respiro fino a che non diventano una direzione, un nuovo spazio di crescita da esplorare. Con Earth Hotel ho sondato terreni impervi, sfiorando l’idea di una disintegrazione a cui mi sono abbandonato, lasciando che queste sensazioni mi portassero sempre più a fondo e, al fondo, mi sono chiesto che cosa avrei potuto ancora essere. Che cosa sarei stato diventando una particella del Tutto, conservando memoria e consapevolezza di quel che sono, che cosa avrei potuto ancora trasmettere. Durante la lettura di una delle riviste di astrofisica a cui mi sono appassionato mi sono imbattuto in H3+, la molecola che pervade l’80% di spazio dell’Universo conosciuto. Una formula chimica in cui ho trovato la personale risoluzione del dilemma amletico Essere o Non Essere perché H3+ è, vibrantemente è, ma dimostra, al tempo stesso, che essere ovunque, essere la materia che permea ogni cosa alla fine significa non essere . Essere è non essere.
Indie-Eye: Da quando sei appassionato di astrofisica?
P.B.: Siamo fatti della stessa materia di cui è intriso l’universo, per questo la riflessione sugli spazi assoluti può offrirci un punto di vista diverso e più vicino alla realtà della nostra essenza. Gli astrofisici hanno lo sguardo rivolto verso l’infinito, mentre noi non troviamo nemmeno la strada di casa senza cellulare. La storia della fisica del Novecento è soprattutto una lotta per l’abbattimento delle barriere interdisciplinari, basti pensare ai testi di Bohr e Heisenberg, spesso più vicini al misticismo e alla filosofia che alla scienza propriamente detta. Credo nell’interdisciplinarietà degli studi umani, perché ogni conquista in un campo è una conquista per tutti nella misura in cui acuisce il nostro sguardo e ci consente di acquistare una prospettiva più ampia rispetto al tempo minimo del quotidiano. Insoddisfatti, avvinti da una percezione sbagliata del tempo come falso movimento, solo andando oltre il visibile possiamo trovare uno sguardo ulteriore per guadagnare un tempo ulteriore. Che poi è il tempo ancestrale del respiro e non c’è progresso tecnologico che possa intaccarlo. Trasmettere, tramandare queste informazioni è il compito di tutti, per me.
Indie-Eye: Hai anche una personale top five di letteratura fantascientifica, quindi.
P.B.: Certo, ma con un solo autore ad occupare tutte le posizioni: Isaac Asimov! L’invenzione della Psicostoria, la disciplina alla base del Ciclo della Fondazione mi ha completamente affascinato. Se dovessi citare un altro libro, anche se con la fantascienza potrebbe sembrare non aver niente a che fare direi inoltre L’Amore assoluto di Alfred Jarry.
Indie-Eye: Torniamo alla musica. A scorrerli, i titoli dei tuoi brani, prendono vita personaggi e scenografie dai titoli inusuali, capaci di suscitare curiosità e stimolare la fantasia del lettore | ascoltatore. Ognuno di essi sembra essere la porta verso una nuova storia, come Olovisione in parte terza.
P. B.: I titoli sono flash, ganci intorno a cui raccogliere e sviluppare le intuizioni. Sono porte tra il mondo dell’immaginazione e quello della realtà, perché il puro immaginare rischia di rimanere sterile se non viene ad arricchire il vivere quotidiano con l’innesto della nuova visione. Le olovisioni non sono ancora in mezzo a noi ma lo saranno tra forse ottant’anni a voler essere ottimisti, molto prima a guardare la luce azzurrognola che si riflette su qualsiasi volto che stia scrutando lo schermo di un telefono cellulare. La mia non è una profezia ma una semplice constatazione. Ci annoiamo della realtà e ne cerchiamo un’altra, come fa Victor Neuer, che durante i suoi trasbordi spaziali guarda film, con gli strumenti tecnologici che nel futuro consentiranno di interagire direttamente con l’oggetto della visione. E’ così che si innamora di un’olovisione, una realtà nemmeno troppo lontana perché anche adesso, mentre parliamo, l’immaginifico è tra noi e non solo. Anche tra due amanti esiste sempre un terzo polo, perché tendiamo ad amare le nostre proiezioni più delle persone reali.
Indie-Eye: Astrobar Sinatra sembra un luogo divertente da frequentare, fintanto che non esplode. Suonano My Way?
P. B.: No, non suonano My Way, ma anche nell’era dei viaggi interstellari ci sarà bisogno di un bar, non trovi? Avrei potuto chiamarlo Astrobar Humphrey Bogart, perché di Bogart mi diverte terribilmente la citazione “Il problema tra me e il mondo è che io sono sempre un paio di drink avanti agli altri”. Non mi risulta che Sinatra abbia dichiarato niente di tanto spassoso, in ogni caso era un pianista da bar e il titolo suonava bene.
Indie-Eye: L’apologia dei drink si ferma all’ultima canzone No drinks no foods, cosa è cambiato?
P.B.: In realtà è un fatto di contesti, come tutto nella vita. Il No drinks No foods del finale rimanda a un divieto che mi ha colpito una sera, in un cinema. Non tanto l’oggetto di divieto, ovvio a mio avviso, quanto il bisogno di ricordarlo agli esseri umani, dimostrazione che non impariamo niente e abbiamo continuamente bisogno di regole entro cui muoverci per non danneggiare noi e gli altri. Oltre alle regole, oltre il bisogno di appartenenza che limita il nostro sguardo quotidiano c’è qualcosa di più grande. Ci si può perdere, ma con la fiducia di saper tornare e il ritorno sulla Terra sotto forma di pioggia, di cui parla la canzone, mi sembrava un’idea interessante per la sua poesia e per la contraddizione con la ristrettezza di comprensione a cui quel divieto faceva appello.
Indie-Eye: Stai già pensando al nuovo album?
P.B.: Si. Non ho idea di come sarà, ma ci sono delle cose che sento di dover ancora dire a me stesso.