domenica, Dicembre 22, 2024

Paolo Benvegnù – H3+ – la recensione

E’ sempre con una grande curiosità che ci si avvicina all’ascolto di un nuovo lavoro di Paolo Benvegnù, ogni volta chiedendosi che distanze possa aver percorso e cosa ne abbia riportato.
Storico fondatore degli Scisma, alla fine degli anni ’90 fu tra i protagonisti di quella scena Indie che seppe imporsi all’attenzione delle major.

Il suo percorso da solista, iniziato con Piccoli fragilissimi film del 2004 e proseguito con Le Labbra del 2008, ha saputo portare avanti con grande coerenza la perlustrazione di una dimensione intimista incentrata sul corpo, punto di partenza e destinazione ultima di un bisogno di ricongiungersi al Tutto.

I dischi che si sono susseguiti sono stati il racconto onesto di un camminare lungo il crinale sottile, spesso troppo sottile, che separa il piacere dell’esperienza dal suo dolore.

H3+ segna la rarefazione di quella dimensione e la definitiva vittoria nell’ardua sfida di trovare un titolo che contenesse tre volte la lettera H e, forse, un numero ben più alto di volte il segno dei confini attraversati e cicatrizzati.
Quel che emerge all’impatto del nuovo lavoro è una sorta di pacificazione, dove il racconto di quella ‘inesausta tensioni di desideri’ che ha caratterizzato tutta la ricerca dell’artista, per dirla con Aldo Carotenuto, ha visto cambiare nel tempo la qualità stessa del suo desiderare.

Nel nuovo lavoro il corpo rimane il protagonista, ma non assolve più alla dimensione della fame e della sete, più non urge; di emozioni ha imparato ad alimentarsi per mantenersi in volo, come un’astronave capace di sondare più ampi spazi ed inesplorate connessioni. E’ qui che il desiderio di Benvegnù, fattosi siderale, sembra aver trovato nuova collocazione. Qui che le distanze smettono di essere tali quando lo sguardo impara a vedere la dimensione ‘invisibile agli occhi’, per citare Saint-Exupery, dove non c’è vuoto e si rivela impossibile l’assenza, in un Universo dove niente si scopre essere inerte.

H3+ è il collante delle distese astrali, nome scientifico per l’abitante più diffuso dello spazio interstellare: una molecola dalla struttura tanto vibrante da aver saputo placare le prime stelle esplose.

Forse allo stesso talento si deve la morbidezza che ha saputo convertire i dubbi più spigolosi dei primi dischi in questa matura melodia, come se la sperimentazione avesse trovato finalmente delle sue linee di contenimento, la certezza di trovare una via d’uscita di cui il disco è testimonianza e saldo Orfeo.

Anche in questo nuovo lavoro i testi concorrono alla creazione di immagini di potente suggestione, e se Benvegnù ha dichiarato più volte di volere imparare a farne a meno, è difficile pensare alla mancanza di una scrittura capace di tradurre le visioni di “stringhe ordinate di numeri, infinite distese di Sale o l’estasi di un canto”. A dichiararlo è Victor Neuer, esploratore, nella canzone d’apertura in cui ritorna quella malìa di archi che ha reso indimenticabile La schiena.

E se “gli invisibili percorsi della mente possono ingannare” (No drinks No Food), la musica, che nella sovrapposizione di melodie sa fondere emozioni contraddittorie all’istante, riesce sempre a condurre fuori dal corpo che nel quotidiano sperimenta “demoni e prigioni” (Boxes), fino a perdere di vista la prospettiva stellare connaturata all’esser uomo.

Che volesse ricordarci questa dimenticata apertura Benvegnù, scegliendo l’ideogramma giapponese che simbolizza il cielo per la cover del suo disco? Nel segno Tien la riga orizzontale del cielo si palesa sopra Rien, simbolo dell’essere umano, nel momento in cui accetta di spalancare le braccia e accogliere il “presente in divenire” (Boxes).

Ma non si inganni il lettore: è un disco asciutto, H3+, “è il Nuovo Mondo. Tutto ciò che è inutile non ha alcun senso” recita Slow Parsec Slow, accompagnato dal sax di Steven Brown dei Tuxedomoon, di cui Benvegnù ha inciso un’indimenticata cover di In a manner of speaking (2005).

Sono le note finali di No Drinks No Food a sciogliere tutto e, qualunque sia stata la tribolazione attraversata, c’è pace al termine, nell’accettazione di un percorso che è stato il proprio, fino in fondo. Le difficoltà ricominceranno domani, stanotte c’è solo una musica siderale che vibra la felicità di scoprirsi intatti, di non essersi traditi, come solo Benvegnù e pochi altri sono riusciti a fare.

Beatrice Rinaldi
Beatrice Rinaldi
Al Rischiatutto porterebbe Alfred Hitchcock, a cena Daniel Auteil.

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