Fabio Capalbo è uno dei pochissimi autori di videoclip in Italia ad avere un punto di vista riconoscibile e coerente.
Basta guardare in sequenza i video realizzati per Rachele Bastreghi (Il ritorno), Edda (Pater), Maria Antonietta (Molto Presto), Dilaila (I Mostri sotto al letto).
Capalbo parte quasi sempre da una prossimità intima all’artista, come se l’approccio fosse quello del videoritratto, dove improvvisamente l’inconscio emerge dalla superficie visiva e sopratutto dalla relazione del corpo, quasi sempre evanescente e fantasmatico, con l’ambiente casalingo.
Improvvisamente lo spazio circoscritto della casa diventa luogo della memoria da dove scaturiscono immagini e illusioni come quelle riprodotte dai dispositivi del protocinema.
Quest’ultimo riferimento diventa esplicito nel video per Vinicio Capossela (Zarafa Giraffa) e in quello bellissimo realizzato per i Planet Funk (Revelation).
Con il video di “Se questo Sono io“, realizzato per Paolo Benvegnù in occasione dell’uscita del suo recentissimo H3+ Capalbo rende trasparente il corpo del musicista milanese mentre vaga tra le stanze di questa grande casa, illuminata dalla fotografia di Nicola Cattani.
A Capalbo interessa l’attraversamento della luce, la mano di Benvegnù contro il sole, le rifrazioni sul vetro di una finestra, i piccoli epifenomeni naturali e quelli artificiali delle sovrimpressioni o degli sdoppiamenti dell’immagine.
L’attenzione agli oggetti in una forma che sfugge l’allineamento simbolico in termini didascalici, preferendogli l’indagine di un processo percettivo, avvicina idealmente i video di Capalbo alle immagini del cinema delle avanguardie. Qui (ma anche nel caso di Maria Antonietta) viene in mente Maya Deren, e le modalità con cui la cineasta americana si interrogava sui modi e i principi che modificano la nostra percezione delle cose.
Al centro l’attenzione davvero commuovente al percorso degli artisti “ritratti”, con un’intimità e una verità rarissime. Il corpo irregimentabile di Edda, tra furia e follia e quello discreto, vicino all’invisibilità, di Benvegnù, sono due estremi di una piccola arte della visione, che si avvicina con rispetto alla storia artistica dei suoi soggetti.