In due brani dello splendido “Peacock Eyes“, secondo album dei Solki, emergono alcune reminiscenze morriconiane. Queste, invece di addomesticare l’inclemenza del racconto sonoro, lo arricchiscono con un nuovo punto di vista. Serena Altavilla, voce duttile e capace di tutto, si insinua come una Driade a contatto con la flora naturale, mette radici ma è assolutamente libera.
Per sfruttare la stessa metafora, quello dei Solki è un punk rigorosissimo, ma allo stesso tempo rigoglioso, perché cambia costantemente il punto di vista, interrompe improvvisamente l’affabulazione del songwriting per diventare l’insieme di una serie di frammenti irriducibili.
Non importa se il linguaggio è scabroso, anzi, è proprio in virtù di questa essenzialità che i cambiamenti sono percepibili, che le improvvise propensioni “orchestrali” valorizzano tutte le parti in causa, senza aggiungere orpelli.
Ogni singolo momento in “Peacock Eyes” è necessario e imbastisce un dialogo tra voce e strumenti attitudinalmente vicino al blues radicale.
I Solki sono Serena Altavilla (Baby Blue, Blue Willa, Band del Brasiliano), Alessandro Gambassi (Vacantze, Funny Noise, Topsy the great) e Lorenzo Maffucci (Mangiacassette, Blue Willa, Betti Barsantini, Bruxurum), la loro musica vive tra disciplina e furia, dove per disciplina non ci riferiamo a qualcosa di “scolastico”, ma alla prassi della ripetizione che tende all’assenza della stessa e del pensiero, come accade nella prassi meditativa.
Un mantra non riconciliato che nella sua componente opposta e selvaggia cerca un contatto altrettanto vivo con l’essenza della natura umana, scompaginandone nuovamente l’assetto.
La prima qualità non rifiuta quindi le intenzioni della produzione artistica, affidata al talento di Alessandro Fiori, la seconda attraversa ascolti, cultura, ossessioni, non ultima la condivisione che l’incarnazione più recente dei Blue Willa aveva stabilito con Carla Bozulich, un’eredità importante che anche in termini di scrittura è stata capitalizzata dal progetto Solki.
Si definiscono dream punk, e tra le associazioni applicate al genere “ritornante” (come un non morto) per eccellenza è tra le più vive e convincenti, perché elude abilmente il prefisso “art” come filtro troppo costrittivo e libera la musica del trio pratese nella dimensione del sogno, che è quella istintiva e allo stesso tempo rigorosa di Dada, dove la base psichica è soggettiva e intuitiva, mai collettiva.
Su un livello differente, la musica dei Solki è musica del corpo come lo era quella di Sharon Topper e Craig Flanagin senza la stessa intenzionalità politica radicale, aspetto evidenziato dalle modalità invece che dai contenuti. La fusione di noise, no-wave, jazz, blues radicale “significa” oppure “istruisce”, cresce e non “distrae”, come avrebbe detto la stessa Topper, o meglio ancora, come ci dice Serena Altavilla in questa lunga e interessantissima conversazione che parla il linguaggio inafferrabile della vita, “riesco a non pensare e semplicemente a fare”
La collaborazione con Alessandro Fiori. Come si è svolta e come avete conciliato i vostri mondi creativi?
Alessandro: In un pomeriggio di ottobre 2014, ascoltando quella che per noi era una prova registrata, Alessandro ci disse che era un disco. Così Ibexhouse ha fatto uscire “Sleeper Grele” e da quel momento è nato tra noi un legame. Per “Peacock Eyes” è stato naturale, nel senso più biologico possibile, chiedere ad Ale di registrarlo. Tutto questo credo che succeda perché insieme non dobbiamo far coincidere dei mondi creativi ma cerchiamo di creare e di perderci in piccoli paesaggi immaginari.
Rispetto a Sleeper Greele mi sembra che il vostro suono abbia guadagnato chiarezza. Non è più semplice, ma comunica in modo più preciso, senza disperdere energia. La produzione di Fiori ha aggiunto qualcosa alla vostra scrittura?
Alessandro: La scrittura dei brani è una fase che è stata di molto precedente alla registrazione; i pezzi risultano più semplici e precisi perché sono stati scritti in un arco di tempo maggiore rispetto al disco precedente e sono stati provati con l’intento di farne un disco (intento che con il primo album non c’era). [pullquote]Ibexhouse è famiglia, mattoni acusticamente sensibili, disegni, Solton, orto, camminate, pizza, abbracci forti[/pullquote] La produzione di Alessandro è stata più profonda, diametralmente opposta rispetto a quello che può essere una frase tipo “ma il ritornello lo farei più lungo”, e trasversale in quello che è stato il suo apporto musicale ai vari pezzi: ha sentito e esaltato cose che c’erano e che noi non avevamo colto, ha dipinto su un quadro fresco.
Serena: Alessandro ha individuato dei pertugi tra i pezzi e gli ha dato vita, ha scorzato un po’ di quella ruvidezza forse e ha fatto sgorgare l’acqua dove ha creduto ci fosse arsura e acceso dei focherelli per scaldare.
Ibexhouse. Che tipo di casa è e cosa vi permette di fare?
Alessandro: Ibexhouse è famiglia, mattoni acusticamente sensibili, disegni, Solton, orto, camminate, pizza, abbracci forti, pulcini curati da galline che dormono sul tetto. Ci permette di fare delle gite dentro di noi che spesso sono soggiorni da cui non vorresti tornare.
Lorenzo: È una casa in un bosco tra Firenze ed Arezzo che ci permette di organizzare le idee, a volte in forma di musica registrata, altre volte in forma di animali ed erbe magiche, altre ancora in forma di relazioni selvatiche con persone parecchio diverse da noi. Ci si arriva e non può essere un transito, quando ci si arriva ci si ferma per un po’ e quasi sempre quando ripartiamo abbiamo accelerato un processo.
Il vostro è un rigore sonoro rarissimo. Procedere per sottrazione mi sembra sia una strategia centrale nella musica dei Solki, tanto vicina al blues radicale quanto al punk che a quelle radici si è ispirato. Istinto e pensiero, violenza e meditazione. Questi sono gli antipodi che mi vengono in mente, come li conciliate?
Alessandro: Non conciliamo, li lasciamo dibattersi. Sembra strano ma se fai con poco puoi anche abbandonare la sindrome di controllo.
Lorenzo: Credo che i Solki siano crudi per statuto, per nascita o per definizione se preferisci. Quando abbiamo cominciato, esattamente tre anni fa, non avevamo chiaro nemmeno chi di noi dovesse suonare quale strumento. Abbiamo fatto dei tentativi rimpallandoci chitarre, basso, batteria (che insieme alla voce, alla guida, sono chiaramente gli elementi che danno alle formazioni di rock minimale tutta la simbologia orchestrale che serve all’ascolto e all’investimento fisico del suono) e dopo qualche tentativo ci siamo assestati così: Serena avrebbe cantato (e questo era per forza il nostro punto di partenza) e avrebbe suonato la chitarra, eseguendo per lo più (ma questo non è mai stato deciso) parti con una funzione simile all’idea barocca del basso continuo, io avrei maneggiato delle armonie a supporto o a contrasto delle linee melodiche, Alessandro avrebbe suonato gli elementi essenziali della batteria disco-rock (cassa, rullante e charleston) interpretando in qualche modo anche il ruolo di ossatura e di groove che solitamente si accorda al basso. [pullquote]I Solki sono crudi per statuto, per nascita o per definizione[/pullquote] Il basso non c’è in questa formazione, e questo forse rende gli spigoli un po’ più difficili da smussare. L’attacco strumentale, delle chitarre e della batteria, suggerisce qualcosa di assimilabile alla violenza, ma per noi che lo realizziamo è come assistere partecipi, in maniera infantile, divertiti, alla crudeltà dei cartoni animati della prima metà del Novecento.
Serena: In una formazione triangolare come la nostra le suggestioni e gli estremi di ognuno giocano sereni in un flipper, rimbalzano su ciascuno e piano piano ci liberano, riesco a non pensare e semplicemente a fare. Una gioia improvvisa o uno scatto di rabbia trovano un conforto di cui mi piace prendermi cura.
In termini compositivi, come nasce un vostro pezzo e da dove parte. Ovviamente se c’è un metodo riferibile.
Serena: Capita di avere un testo pronto, ma per questo disco in particolare i testi si sono svelati lentamente proprio insieme alla musica. Si sono fatti chiari attraversando una specie di gramelot, come una nebbia che piano piano si diradava. È la stessa comunicazione magica che nei miei ricordi infantili accomuna il linguaggio fonetico di Dario Fo e le interpretazioni dell’opera lirica che per necessità tecniche mettono in secondo piano il significato stretto, l’intelligibilità del testo. Le parole si modellano sul suono, quindi è normalissimo che la parola che poi si modella su una melodia molto probabilmente sia proprio quella che stavo cercando, cioè quella giusta per me.
Alessandro: Serena canticchia delle cose in casa, però lo fa quando è sola ed è difficile sapere cosa accada. Alcune di quelle cose le canta quando ci troviamo a fare le prove, accompagnandosi con la chitarra. Lorenzo impara gli accordi, una volta che li ha imparati ne fa altri che suonano bene con quelli che fa Serena. Io percuoto la cassa, il rullante e il charlie in un modo che il tutto risulti organico rispetto alla musica. Alcuni pezzi sono nati al contrario rispetto a quest’ordine.
Lorenzo: In altre parole un metodo che prevale, insieme alla giustapposizione di figure musicali in forma collagista, è questo: Serena presenta, in forma già piuttosto elaborata, diverse idee melodiche che hanno provenienze disparate, spesso rivangando lo spaziotempo e ricordando delle frasi (sia sonore sia testuali) che le si sono impigliate nei sogni o in cui si è imbattuta casualmente nel quotidiano. [pullquote]I testi si sono fatti chiari attraversando una specie di gramelot, come una nebbia che piano piano si diradava[/pullquote] A partire da quella melodia io e Alessandro ricerchiamo un accompagnamento rispettivamente armonico e ritmico che, di volta in volta assecondando o contrastando l’idea melodica, stabilisce le parti della canzone. In un certo senso è un procedimento inverso a quello che di solito (non lo sappiamo in realtà, presumiamo che sia così) avviene nella composizione di canzoni orientate alle chitarre, cioè lo sviluppo di un canovaccio che spesso nasce da un abbozzo di testo e da uno spunto armonico accordale.
Solki – Empty Bag Jellyfish il video diretto da Lalo Kolis interpretato dalla performer Dina Prinz
Avete registrato in presa diretta. Il perché di questa scelta. Ve lo chiedo perché la qualità degli ascolti, proprio in termini attitudinali, è ormai scesa sotto lo zero, al di là della rinascita del vinile, tra l’altro tutta da discutere e contestualizzare. Per dire, non sono convinto che spotify sia il luogo adatto per ascoltare i dischi di Karen Dalton nonostante il loro fierissimo pauperismo, giusto per fare un esempio. Che ne pensate?
Alessandro: Registrare in presa diretta lascia l’errore, l’imperfezione o la cosa non voluta che ti fa sorridere quando la riascolti per quanto stia bene in quello che hai registrato. La qualità dell’ascolto è un parametro che il commercio della musica ha reso fumoso, la rinascita del vinile ne è un sintomo. Penso che sia inevitabile appiattire le qualità e le caratteristiche di un oggetto se si desidera massificarlo.
Cosa si può vedere attraverso gli occhi di un pavone?
Alessandro: Credo si veda molto bene ai lati, forse si perde qualcosa sulla parte centrale della visuale. Credo sia un po’ come vedere solo il luogo, le cose, le persone che hai intorno senza vedere bene chi o cosa hai davanti; spostarsi per cercare di vederlo, vederlo e rendersi conto che non è più davanti ma è in uno dei due lati.
Intorno alla voce di Serena accadono cose. Trovo sorprendente possa adattarsi a progetti e situazioni così diverse tra di loro. Per quanto riguarda Peacock Eyes ho pensato anche a Meredith Monk calata in un contesto completamente diverso. Diverso dal filtro della cornice “colta”, ma con risultati non dissimili in termini espressivi. Che ne pensi e che tipo di studio c’è dietro il tuo talento?
Serena: Ho sempre voluto cantare e ho sempre cantato. Cioè ho sempre usato la voce: non tanto per esprimermi parlando, ma per cantare. La teoria musicale è come una materia oscura. Quando vedo un pentagramma vado in crash mentale, ma a braccetto di questa sensazione, a contrasto, ho invece il pensiero che sia una cosa molto familiare. E poi mi piace anche slacciarmi dalla scrittura, sentirmi un’interprete. [pullquote]La voce puoi trattarla bene oppure male, ma più ne sai meglio è. Mi piace tantissimo scordarmene e andare a vedere cosa succede altrove[/pullquote] Mi lusinga questo paragone che fai con Meredith Monk. Ho preso delle lezioni frammentarie per il piacere di scoprire le tecniche e i discorsi secolari della musica e poi con lo stesso piacere evaderle. La voce puoi trattarla bene oppure male, ma più ne sai meglio è. Mi piace tantissimo scordarmene e andare a vedere cosa succede altrove. Mi immedesimo nell’aria che serve alla voce, che è una specie di specchio, non esattamente un’ossessione ma una luce che seguo, in me e in altre persone. Ho assorbito gli ascolti che ho fatto fin da piccola, da Maria Callas a Diamanda Galás a Freddy Mercury a Poly Styrene degli X-Ray Spex, e ancora non mi quadro.
“So I just decided to relax and fuck my youth”. Perché?
Serena: Perché dall’adolescenza fino ai trent’anni ero convinta che ci fossero delle bandiere dietro cui stare, con cui vestirsi. Considera che i miei testi sono dei voli pindarici, non raccontano una storia per filo e per segno. Ma una traccia potrebbe essere questa: mi sono slegata dal cercare delle certezze. Per un certo periodo sono stata affascinata dalla sicurezza di alcune risposte pronte: ascolti un certo tipo di musica e allora devi metterti un certo tipo di scarpa, o viceversa. Ma io in una settimana volevo mettermi tutte le scarpe del mondo. Provavo ad assecondare questa ricerca di coerenza stupida, estetica, e stavo male. Mi sono stancata di questo: delle bandiere, dei loghi e degli adesivi, non mi dispiace affatto la sporcizia ma l’appiccicaticcio mi dà ai nervi.
I testi di Peacock Eyes parlano di sentimenti e di identità. Identità sfuggenti e sentimenti indicibili, sempre fotografati al confine tra l’euforia e la disillusione. In generale mi sembra che il tentativo sia quello di cogliere una dimensione aurorale, quella in potenza tra il prima e il dopo di un gesto.
Serena: È una ricerca di attimo perduto o di attimo vissuto. Anche perché sono molto umorale, quindi nella canzone magari ci sono più umori diversi. Quello che cerco allora è anche un attimo di perdono, di pace con me stessa, perché è faticoso questo su e giù. Elaborare, metabolizzare i veleni che si producono e che si ricevono, modi per chiedere scusa, modi per dire grazie e modi per dire vaffanculo. Poi c’è il grande sogno che è la notte. Durante il giorno per me è un continuo contestarsi, contraddirsi. Una mente che non sta mai calma e pensa troppo cerca riposo. La notte, per sbaglio, per sfinimento, la trova, e allora forse riesce ad emergere di più l’inconscio, le cose che mi vergogno di dire o di fare. Queste sono risposte che un pochino, a volte, mi consolano.
Uno dei miei film preferiti è “Last Summer” di Fank Perry. L’adolescenza e gli anni della formazione affettiva vengono spazzati via dalle mani di una giovanissima Barbara Hershey mentre schiaccia la testa ad un piccolo uccellino. Peackock Eyes mi sembra che occupi lo spazio intermedio tra questi due stati. Meraviglia e furore, “Stupore infantile” e orrore. Che ne pensate?
Alessandro: Penso che meraviglia e furore siano sensazioni che soffiano forte sull’amore. Per quanto opposte fanno parte del vento che corre nel far-west dei sentimenti, in cui un granello di polvere in un occhio brucia quanto una città messa a ferro e fuoco.
Ecco il gesto. Quanto è importante per voi in termini espressivi e compositivi. Intendo dire, tradurre l’istantaneità del gesto in suono, voce, rumore, allucinazione, visione.
Alessandro: Per me è fondamentale: suono la batteria senza averne coscienza e certe cose che suono non saprei rifarle se all’immediatezza sostituissi il calcolo o l’architettura. Questo non vuol dire che non apprezzi chi lo fa, anzi è una pratica che agogno ma che allo stesso tempo non è parte del modo in cui suono.
Lorenzo: Mi accodo a quanto detto da Alessandro. Mi fai pensare, parlando del gesto, a qualcosa che si lega indissolubilmente alla “partitura”, o per meglio dire alla parte. Chi assistesse a due diversi concerti dei Solki osserverebbe che ad alcune parti corrispondono gli stessi gesti (naturalmente con margine di aggiustamento), perché senza volerlo, oppure senza saper fare altrimenti, è a una specie di coreografia a cui tendiamo suonando.
Mi piacciono molti certi inserti Morriconiani. Il fischio in Liza’s For All e il lavoro di Serena sulle parti più corali di Wriggled Arms. Le scelte sono misuratissime e mai esplicite. Come mai?
Alessandro: Perché in un posto dove ci sono poche cose ci si perita ad aggiungerne altre, credo per riconoscenza a quello che già c’è. Generalmente si aggiunge solo dove il vuoto da solo si sente solo.
Lorenzo: E rispetto al nuovo disco, molto importante, nella coloritura ma nella discrezione, è stato l’apporto di produttore artistico di Alessandro Fiori.
A questo proposito trovo sorprendente “Jealous Girl”. In quel caso si riesce a far combaciare le torch songs più erotiche di Julie London con il punk, i Velvet, il folk e altre cose. Una sovrapposizione interessante. Come vi è venuta in mente o più semplicemente, quanta urgenza interagisce con la sensibilità e la cultura?
Alessandro: Tanta, tantissima. Talmente tanta che a volte l’energia dell’urgenza oltraggia la sensibilità e distrugge la cultura, senza poter fare diversamente perché solo così può esistere.
Serena: Ero un po’ imbarazzata a proporre questo pezzo alle prove la prima volta, la melodia e le parole sono piuttosto “epiche” e meste, ma avevo una necessità assoluta di confessare cantando la mia gelosia quella data e quella ricevuta. [pullquote]Questi pezzi sono fatti di tutta materia vivente che si riconfigura rispetto all’ambiente e al tempo[/pullquote] Dovevo sfogarmi delle sfide del possessso e di mancanza. Ma mi sono fidata di Lore e Ale e ho accettato la cosa senza troppi drammi (apparenti). I violini aggiunti da Alessandro Fiori hanno portato agli estremi il polverone western che è di fondo al pezzo, è stato davvero emozionante vedere e sentirgli creare questa atmosfera con una gentilezza e un coinvolgimento stupefacenti.
Il modo in cui avete registrato il disco lo avvicinerà in forma più specifica ai vostri set live, oppure ci attendono sorprese?
Lorenzo: Al momento ci entusiasma l’idea di riportare fedelmente, se si può usare questo paradosso dell’alta fedeltà, questo disco sulle scene precarie nelle quali ci aggiriamo. Abbiamo registrato il disco, quindi in un certo senso cristallizzato quei pezzi in una certa forma “definitiva”, ma lo abbiamo fatto un anno fa e questi pezzi sono fatti di corpi e strumenti che sono fatti di nervi, budella, ossa, legno, metallo, campi magnetici, cioè tutta materia vivente che si riconfigura man mano rispetto all’ambiente e al tempo. Quindi c’è chiaramente lo spazio di manovra per sorprenderci in qualche modo. Quello che vorremmo mantenere è la debita distanza dai fronzoli e dall’artificio.
Dove porterete dal vivo la vostra musica nei prossimi mesi?
In questo momento ti scriviamo dalla città di Graz, in Austria, dove abbiamo cominciato il tour di questa primavera-estate. Per tutto maggio e per la prima metà di giugno suoneremo in Italia, a fine giugno faremo una residenza in Normandia, a luglio gireremo per festival tra Italia e Svizzera, ci stiamo organizzando per un autunno più fitto possibile. Suonare spostandoci è la cosa che preferiamo!