Settimo album per i Polar Bear, dopo le atmosfere urbane di “In each and Every one” il battito impostato dalle pelli di Seb Rochford e dal contrabbasso in odor di dub di Tom Herbert tenta la carta di un minimalismo più astratto e dilatato probabilmente suggerito dalla location in cui Rochford si è trovato a fare il missaggio del disco, quella del deserto del Mojave. Oltre a questo, la nuova casa presso Leaf Label li trova in buona compagnia, insieme ad un gruppo di musicisti che in qualche modo si avvicinano molto alla loro filosofia sonora, tra tutti, Wildbirds and Peacedrums, tornati insieme a novembre 2014 con il bellissimo Rhythm.
L’ibridazione tra Jazz e i tempi più dilatati di un minimal-kraut ha similarità molto forti tra le due band, e nella struttura di questo nuovo “Same as you” rimangono fissi gli elementi sonori attraverso i quali la band è cresciuta; oltre al contributo di Rochford e Herbert, ci sono ancora i sax allineati di Mark Lockheart e Pete Wareham, ma in una direzione che tende ad essere più scabra e frammentaria e a dissolvere ogni tentazione legata allo sviluppo melodico, un po’ come era successo, con timbri diversi, agli ultimi Talk Talk e con un approccio più simile, ai successivi O’rang di Lee Harris e Paul Webb, sorta di Can più devoti al groove tribalistico. La vicinanza a Wildbirds and Peacedrums quindi non si verifica a livello timbrico quanto concettuale, in quel confine molto lieve che si stabilisce tra improvvisazione e sviluppo; in questo senso l’allure dei Polar Bear è molto meno impattante dei colleghi e segue maggiormente le tracce di un mantra minimal suadente e tendente all’infinito.
Centrali in questo nuovo corso, le due tracce più lunghe e visionarie dell’intero lotto, We feel the Echoes, quasi reminiscente di una vecchia drum’n’bass declinata in forma acustica e ambient dub e la conclusiva Unrelenting unconditional, venti minuti di pura atmosfera sensuale dominati da basso e sax e da numerosi dettagli timbrici sullo sfondo che ne accentuano la natura meditativa.
Fa eccezione la (comunque splendida) Don’t let the feeling go, coadiuvata dalla voce di Hannah Darling in duetto con lo stesso Rochford, episodio quasi trip hop basato su groove e inciso circolari, a conferma che la traccia più pop dell’intero album segue comunque la via di un mantra che gioca la sua partita con la ripetizione e la memoria, lo spirito e il corpo; una volta attivato, questo si allontana per scomparire nel deserto come una fata morgana.