Nata a Ghent, in Belgio, Trixie Whitley ha respirato musica sin dalla nascita. Suo padre, Chris Whitley, è un chitarrista che ha frequentato musicisti come Arto Lindsay, Dave Matthews e Daniel Lanois. Ed è proprio l’esperienza fatta con il padre e il contatto con Lanois a favorire il lavoro dei Black Dub, band con cui Trixie ha collaborato come vocalist, realizzando un album nel 2010. La sua carriera solista comincia due anni prima con la pubblicazione dell’ep “Strong blood” seguito da altri due lavori brevi e un primo full lenght del 2013 intitolato “Fourth Corner“. Stanziata ormai a Brooklyn la Whitley pubblica “Porta Bohemica” alle porte del 2016, ispirandosi al tratto tra la Germania e l’Australia, una vecchia linea ferroviaria che Trixie utilizza come metafora di un lungo viaggio personale, identitario e artistico.
Tutta l’esperienza come polistrumentista fatta durante l’apprendistato con il padre agli Electric Lady Studios, praticamente una seconda casa, si sente chiaramente; Porta Bohemica è infatti un prodotto nel vero senso del termine, orientato a costruire un suono epico, che lambisce in un certo senso il rock “classico” di musiciste come Anna Calvi, il blues-pop dello stesso Lanois, ma con una maggiore attenzione al mainstream tra gli ottanta e i novanta (dalla “seconda” Carly Simon a Pat Benatar) nell’intenzione di raggiungere l’allure di un crooner che va dritto al sodo senza troppe mediazioni e derive intellettualistiche.
In questo senso la Whitley punta moltissimo alla qualità “soulful” della voce a cui dedica una centralità precisa, sostenuta dall’arrangiamento di archi e fiati sullo sfondo, tavolozza sulla quale disegnare gli elementi di un pop-rock-blues funzionale. Soft Spoken word, che è anche il singolo-video di lancio dell’intero progetto, è un buon esempio della sintesi tra lievi reminiscenze trip-hop, rock e un soul imbastardito che attraversa tutto l’album.
Sulla stessa linea brani come New Frontiers e la splendida Salt, tracce che non hanno niente da invidiare alla forza evocativa del fenomeno Banks, ma che si muovono forse più onestamente entro confini non forzatamente innovativi. L’allusione alla club culture è infatti del tutto minima e Trixie Whitley desume il suo linguaggio dagli elementi più tradizionali della cultura pop, rielaborandoli per esplorare la sua duttilità come performer; la chiusura solo piano di The Visitor lo dimostra: brano essenziale e a tratti atonale, dalla consistenza soprendentemente liquida, dove la voce testimonia da sola le grandi capacità di un’interprete che non ha bisogno di molte altre cose intorno per creare una piccola grande magia.