Alla fine degli anni ottanta Il segno dei tempi per l’industria dei videoclip era anche quello dell’acquisizione di un confine. Si delineavano maestranze, autori, nomi finalmente riconoscibili anche fuori dalla politica di MTV. Cominciava un viaggio inarrestabile verso l’ipertrofia visiva, nel bene e nel male. Ipertrofia come saturazione, ma anche come acquisizione di nuovi mezzi, nuove forme di linguaggio e un’inedita libertà nell’utilizzo di forme espressive molto diverse, dalla computer grafica alla bassa risoluzione.
Nel 1987 Bill Konersman, artista che non a caso svilupperà tutta la sua successiva carriera nel campo dei visual fx, mette insieme per Prince il video di Sign O’ The Times, vero e proprio lyric video fatto di linotipi cinetici in anticipo sui tempi, ma anche erede di una tradizione complessa costituita da derive, recuperi e ripartenze.
Konersman torna alle origini della musica illustrata, passa per le sperimentazioni tra segno grafico, suono e animazione della factory Fleischer e per il Bob Dylan filmato da Pennebacker, quello di “Dont look back”. Nello specifico, il video di Konersman diventa occasione per trasformare i caratteri tipografici in un sistema di relazioni tra colori, patterns visivi, motivi grafici e la visualizzazione delle strutture armoniche del brano. Non era certo una cosa nuova se guardiamo al cinema delle avanguardie storiche ma anche a quello degli anni settanta, animazione inclusa, ma si collocava in una posizione diversa per l’utilizzo ancora acerbo della computer grafica, come rilettura di un’arte “ottica” (anche nel senso che assume con il lavoro di Saul Bass) attraverso nuovi dispositivi e la sintesi digitalizzata di una storia di segni.
In questa stessa direzione Jakob Trollbäck , designer svedese di talento, nel marzo del 2007 rilegge per immagini Byrne/Eno di Moonlight in Glory, brano tratto dal capolavoro “My life in the bush of ghosts“, riproponendo motivi che alludono agli strumenti di visualizzazione dell’intensità del segnale, con una stilizzazione di ciò che già era nell’immaginario di Norman McLaren e Evelyn Lambart, così come nel cinema di Len Lye, ma anche in alcuni momenti della filmografia Disney. Trollbäck, con l’abilità di un social media manager, si convince e promuove l’esperimento al suo pubblico, autocelebrandone la portata innovativa. “Se non conosci la Storia, sei condannato a ripeterla“; è il noto statement citato da Henry Keazor e Thorsten Wübbena in “Rewind, Play, Fast Forward: The Past, Present and Future” proprio in relazione al video di Trollbäck messo a confronto con quello di Konersman. Per i due studiosi è la dimensione storica del videoclip alla base di questo e altri “lapsus”. Non una ma molteplici narrazioni, separate de interruzioni, crisi (economiche, di sistema, legate alle piattaforme, alla transitorietà dei media…). Entropia e rinascita verso qualcosa di nuovo. In questo senso, le incorporazioni, le convergenze e la “pollinazione” cross-mediale, vengono analizzate negli ultimi quindici anni dagli studiosi più saccheggiati nelle nostre tesi di dottorato: Jenkins, Vernallis, Bolter e Gruisin.
Quella di Prince/Konersman anticipa una tendenza, mettendo in primo piano la visualizzazione grafica delle liriche, la stessa esplosa in anni recenti con la prassi dei lyric video ma anche grazie al lavoro di artisti come Jonathan Barnbrook, attenti a sviluppare mondi possibili a partire dalla morfologia stessa dei fonts e alle possibilità dei nuovi software per elaborare motion graphics nello spazio mutante della cornice, aspetto combinatorio che spesso viene equivocato semplicemente in ambito “visual” senza rilevare il rapporto complesso tra radice e decostruzione che è presente, per esempio, nel lavoro dell’artista britannico.
In Sign O’ the times sono i font e i motivi grafici a cambiare i confini della cornice, ad aprirlo in profondità, a sfondarlo e a creare una diversa percezione del ritmo e del tempo dentro l’immagine, con un’intuizione che anticipa l’utilizzo dei motori grafici che stanno alla base di applicazioni come After Effects e Motion, dove la finestra del quadro si sposta sul “mondo” come uno scanner a mano libera.
In questo senso, il noto esperimento di Chris Sievey promosso come B-Side di “Camouflage” ha una dimensione più statica e bidimensionale nel risultato, se si esclude ovviamente il processo di ricostruzione e codifica del “manufatto” tra musica e testo, realizzato con il coinvolgimento diretto dell’utente. L’artista è lo stesso che si inventò il moniker e il personaggio di Frank Sidebottom, non a caso ispirato al mondo animato di Max Fleisher, autore che citiamo spesso come “seme” originario di quel connubio tra immagine e promozione, ovviamente se prendiamo per buona la descrizione che Vernallis fa del modello “videoclip” come prodotto “delle compagnie discografiche dove le immagini sono abbinate al repertorio pop, allo scopo di venderne le canzoni” (Experiencing Music Video, 2004). Da alcuni studenti distratti ed autoelevatisi al rango di studiosi, l’esperimento di Sievey, che trovate descritto con questo contributo pubblicato su YouTube, viene considerato come il primo esperimento di videoclip interamente generato da un computer, senza tener conto ovviamente delle pioneristiche workstation della britannica Quantel, diffuse prima ancora di lanciare il più noto Paintbox.
Destinato ad una rivalutazione postuma, Sievey si pone al margine di un fenomeno che ha radici lontanissime, indietro fino a Koko the Clown e le Song Car-Tune, mentre alla vigilia degli anni novanta, nel pieno di quell’esplosione mainstream dell’industria legata al videoclip, quando gli autori li si possono riconoscere e i budget salgono vertiginosamente, Prince e Konersman anticipano la tendenza opposta con una radicale “riduzione” del segno-corpo. Il performer scompare in modo più flagrante rispetto al precedente “Paisley Park” e il filmaker diventa un alchimista senza set.