Crazy Little thing Called Love (1979) vero e proprio pastiche rock’n’roll, fu uno dei singoli di maggior successo dei Queen, riguardo al quale è nota tutta la mitopoiesi legata alla stessa genesi del brano. Omaggio evidente ad Elvis, una delle passioni di Freddie Mercury, viene scritto e prodotto in gran velocità, con l’ambiente sonoro ricreato da Reinhold Mack, su imitazione di quell’aura old fashioned che aveva caratterizzato anche il metissage dell’album precedente della band britannica, il discusso, anche in termini visuali, “Jazz”.
Il video che veicolava “Crazy little thing called love”, non a caso, è il prosieguo della collaborazione con il regista Dennis De Vallance, che già aveva lavorato sulla censuratissima clip di Bicycle Race. In questo caso sceglie una strada solo apparentemente più convenzionale, ricreando in studio la dimensione performativa che caratterizzava l’immagine di Elvis, dai suoi film alle esibizioni allestite per la televisione.
Per la prima volta in un promo dei Queen compare un gruppo di ballerini, due donne e due uomini, mentre la band suona sullo sfondo e Mercury domina un catwalk oltre ad una serie di props iconici, tra cui una motocicletta.
Al di là della retromania che caratterizza la fine del decennio e l’inizio del successivo, il video è una rivisitazione irriverente di quei codici, proprio nei termini in cui la rappresentazione del genere, viene sottoposta a ribaltamento, se non erosione, come accade spesso nei video della band britannica e nel modo in cui Mercury gestisce il mash-up iconologico che caratterizza la sua persona scenica.
L’atto di guardare come possesso indirizzato verso il corpo femminile, annichilito nella forma di un oggetto inanimato, subisce un’inversione rispetto alla norma, prima di tutto perché avviene una sostituzione con il corpo di Mercury, la cui oggettificazione polarizza sia lo sguardo femminile che quello maschile.
Oggetto di più desideri, il genere si dissolve per un rifiuto di standard e punti di vista definiti. L’immagine virile dello stesso Elvis, che qui viene evocata in forma transtorica, dalle origini fino al noto concerto del 1968, viene moltiplicata e complicata con più di una rivendicazione delo sguardo desiderante.
L’alterità quindi, non viene rappresentata come uno stereotipo evidente, ma individuata come centro di un transito continuo, dove corpi maschili e femminili si sovrappongono e danno vita a nuove genesi dello sguardo.