domenica, Novembre 17, 2024

Return Of The Silkie: il folk di Carol Kleyn

Terza ristampa da parte di Drag City per Carol Kleyn, talentuosa arpista di Seattle che nel 1969 partì per la California alla scoperta degli anni migliori della propria carriera musicale.  Dopo aver recuperato i tesori perduti Love Has Made Me Stronger (2011) e Takin’ The Time (2012), viene completata la trilogia degli anni 1976-1983 con Return Of The Silkie; un passaggio fondamentale per capire fino in fondo l’opera di Carol Kleyn, semplice nella sua natura folk ma al contempo complessa: ricollocare (parte di) una discografia cronologicamente lontana anni luce, in un’epoca diametralmente opposta a quella di origine rischia di diventare un’operazione anacronistica e ridondante se alla base delle motivazioni che la sostengono non c’è che il solito profitto.

Nel caso di queste ristampe, la differenza la fa il chiaro tentativo di Drag City di far notare a chi subisce il fascino senza tempo di un certo tipo di musica come alcuni vecchi capitoli del grande libro del folclore non sono mai stati aperti – sebbene mai si siano chiusi.

La musica è storia e, come la storia, si ripete: così, Joanna Newsom e i busker, per citare riferimenti contemporanei, devono molto alle pagine scritte da Carol Kleyn. Ma non è in questo che risiede l’attualità dell’arpista ritrovata. “There’s a storm over paradise/ and it’s we who decide/ just how long she may live/ or when she shall die”: dopo due album in cui era l’umanità il centro di riflessioni e stati d’animo, è in testi come Storm Over Paradise che ritroviamo la volontà di attirare l’attenzione su ciò che realmente sta a cuore a Carol – la natura. Non a caso l’arpista scrisse e compose questo lavoro in riva alla laguna durante un periodo in cui si prendeva cura delle sue silkie – alcune foche bisognose di cure che amavano uscire dall’acqua per accompagnare il suono dell’arpa con i canti che lei registrò e che possiamo sentire in sottofondo ai pezzi di questo disco.

Arpa, voce e canti delle foche è tutto ciò che si sente in questi quaranta minuti di quasi-new age. A volte sentiamo anche meno, come in alcune tracce strumentali quali, ad esempio, la titletrack: qui l’eterea voce di Carol riecheggia in sottofondo come provenisse dalle profondità marine, mentre le note di arpa scandiscono il tempo che altrimenti sembrerebbe fermo in un unico eterno istante in cui l’uomo e la natura sono quel tutt’uno utopistico per raggiungere il quale, oggi, si fa molta fatica a farsi bastare un furgone scassato.

Anche l’ultimo brano dell’album, And Back Again, è strumentale e chiude il cerchio allo stesso identico modo in cui si è aperto – ma stavolta le voci che riecheggiano in sottofondo sono i canti delle foche.

C’è qualcosa di molto toccante nel candore con cui oggi ci viene proposto l’ascolto di un nuovo disco di trent’anni fa. Certo, concretamente questa è un’operazione che rende disponibili sul mercato dei dischi che prima d’ora risultavano introvabili da anni. Tuttavia, un ascolto a occhi chiusi di queste dieci tracce ci svela molto più di quel che è alla luce del sole; mentre ascoltiamo la musica, nella filigrana di questo lavoro intrecciamo le nostre speranze, illusioni, motivazioni e preoccupazioni con quelle di allora – da due epoche diametralmente opposte, ma che si ripetono in quanto storia.

Flora Strocchia
Flora Strocchia
Flora scrive, è traduttrice, ascolta molta musica e non si perde un concerto.

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